Percorsi minori dell’intelligenza – Franco Lolli
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In Percorsi minori dell’intelligenza, Franco Lolli si occupa di clinica della disabilità intellettiva.
Il lettore vi troverà alcuni concetti fondanti della teorizzazione lacaniana, così come molte vignette cliniche, che, oltre a rendere la lettura più scorrevole, illustrano la funzione pratico-clinica di concetti molto complessi ed estremamente teorici.
Lolli sottolinea come la psicoanalisi tenda, per svariate ragioni, a non occuparsi di disabilità intellettiva, lasciando questo campo sotto l’egida delle neuroscienze e della psicologia cognitiva.
L’autore, muovendosi in una cornice lacaniana, mostra come anche la psicoanalisi possa essere utile in questo campo, proprio per la sua capacità di allargare lo sguardo. Lolli, pur sottolineando con forza l’impatto che ha una lesione cerebrale sulle capacità cognitive, sostiene che una percentuale non trascurabile di persone ha un ritardo cognitivo pur in assenza di un danno organico riscontrabile. “Che si tratti di danno meccanico, biochimico, genetico o altro, resta, in ogni caso, abbastanza misterioso il meccanismo specifico di costituzione dell’insufficienza mentale. Coerentemente con i dati presentati dall’American association on mental retardation “allo stato attuale le cause del ritardo mentale sono ancora sconosciute in circa il 30% dei ritardi gravi e nel 50% dei ritardi lievi”. Questo dato porta Lolli a interrogarsi sui fattori che accomunano i due gruppi di soggetti: la sua teoria è che essi non abbiano acquisito il sistema simbolico. La padronanza di questo sistema permetterà lo sviluppo delle capacità cognitive, linguistiche e, più in generale, tutta una serie di capacità che ci consentono di muoverci nel mondo e di entrare in relazione con l’altro.
Semplificando un concetto ben più complesso e sfaccettato, per la corretta installazione del sistema simbolico si devono verificare tre condizioni: un bambino molto piccolo in grado di rispondere in modo coerente ai segnali della madre, una figura materna che risponda con sollecitudine ai bisogni del figlio e provi un desiderio in grado di particolarizzarlo e una figura paterna che non deve essere per forza una persona in carne e ossa, ma che va intesa più come una funzione in grado di interrompere il rapporto fusionale che si instaura tra il figlio e la madre. Questa figura, distogliendo l’attenzione e soprattutto il desiderio della madre dal bambino e catalizzandolo su di sé, induce il figlio a interrogarsi su cosa la madre desideri oltre lui e gli permette di desiderare a sua volta. È questo uno dei primi passi che fa sì che il bambino possa accedere alla funzione simbolica.
Lolli sostiene che, in caso di disabilità del figlio, spesso qualcosa in questo processo può non funzionare: i genitori provano un sentimento di rifiuto nei confronti del bambino che quindi può non essere circondato dal desiderio della madre. La madre, anche per compensare questo sentimento di rifiuto, spesso anticipa tutti i bisogni del figlio e soprattutto il padre, che frequentemente è assente, non svolge la funzione di terzo che permetterebbe al bambino di interrogarsi sul desiderio della madre e di desiderare lui stesso. Se inoltre consideriamo che spesso il bambino che svilupperà un ritardo cognitivo è in una condizione organica che rende molto più complicato il rapporto con il mondo esterno, è evidente che la funzione simbolica del piccolo fatichi a svilupparsi. “In questo senso, l’eventuale lesione cerebrale (qualunque ne sia l’origine) sembra costituirsi come evento fondamentale nell’esistenza del soggetto, come accadimento primario capace di distorcere, a volte persino di impedire, il rapporto del soggetto con il mondo che lo circonda; in termini analitici, l’evento della lesione – il reale del corpo – condiziona e ostacola il rapporto del soggetto con il significante – ovvero, il suo ingresso nell’universo simbolico.”
Sulla base di queste considerazioni teoriche, l’autore, partendo da diversi casi clinici, propone alcune riflessioni molto interessanti: ragiona sul motivo per cui alcune persone con disabilità intellettiva hanno un rapporto così particolare con gli oggetti; spiega il motivo per cui un utente non manifesti sentimenti di lutto quando la madre, a cui era molto legato, muore; si sofferma sul rapporto tra la mancata acquisizione del sistema simbolico, l’estrema difficoltà a non tollerare l’assenza dell’oggetto e le difficoltà cognitive.
Lolli ragiona poi sul motivo per cui i disabili intellettivi spesso interpretino dei ruoli specifici e fissi e facciano molta fatica a separarsene. Sottolinea come l’inconscio della persona con disabilità intellettiva sia molto più in superficie, ma anche come spesso gli operatori attribuiscano le manifestazioni atipiche, anziché ai moti inconsci, alle difficoltà cognitive del soggetto disabile.
L’autore riporta come sia comune, per chi lavora nel campo della disabilità intellettiva, riscontrare che pazienti con un ritardo cognitivo particolarmente grave manifestino una sorta di “Furbizia”, ossia una serie di capacità inaspettate, volte alla soddisfazione di un bisogno specifico. Tuttavia, Lolli sostiene che questa serie di azioni che la persona con disabilità intellettiva compie, non siano inserite in un quadro, il sistema simbolico, che dota di senso questo agire, ma vengano scatenate da un segnale e non cambino al mutare del contesto. L’autore sottolinea però che ciò non vuole assolutamente dire che il loro comportamento sia immutabile, anzi, proprio perché ogni persona è comunque inserita in un universo simbolico ed è circondata da persone desideranti, il comportamento può essere almeno in parte modificato.
Il compito della clinica della disabilità intellettiva è per Lolli quello di partire dai comportamenti dei pazienti e provare a inserirli nell’universo simbolico, relazionale e desiderante. La capacità desiderante di questi pazienti per varie ragioni non si è sviluppata ed perciò fondamentale che essi percepiscano il desiderio, non intrusivo, dell’altro nei loro confronti. Lolli porta l’esempio di un utente con un ritardo cognitivo grave, Bruno, la cui unica attività finalizzata è quella di bere caffè rubandolo dalle tazzine degli avventori della comunità. Gli operatori decidono di offrirgliene una tazza nella loro stanza. Ciò costringe Bruno a relazionarsi con loro per ottenere il caffè. Pian piano, il tempo che Bruno trascorre in compagnia degli operatori è sempre maggiore: sembrerebbe che all’impulso di bere caffè si sia affiancato il desiderio della compagnia dell’altro.
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