Un pesce sull’albero
Recensione pubblicata il: 17/02/2016
Non è facile per Ally: scuola nuova, compagni nuovi, professori nuovi e, come se non bastasse, quell’insopportabile sensazione di essere diversa dagli altri, stupida forse. Gli sforzi che la dodicenne fa per eguagliare i compagni in fatto di lettura e scrittura non trovano infatti un’adeguata soddisfazione (“Se cercare di leggere servisse a qualcosa – dice a un certo punto – sarei un genio”), tanto che Ally arriva più di una volta a un passo dal gettare la spugna. A remarle contro, almeno inizialmente, ci sono un’insegnante e una preside incapaci di leggere realmente il suo disagio e dei compagni di classe che, poco guidati ad accogliere la diversità, scivolano facilmente nella presa in giro. A casa, d’altro canto, il morale non si solleva granché: il fratello di Ally le manifesta un affetto enorme ma manca concretamente degli strumenti per aiutarla, la mamma riconosce i sui pregi e cerca di contenere i suoi insuccessi ma non ha molto tempo da dedicarle e il padre, pur amorevole e gran punto di riferimento, è fisicamente lontano per via di una missione militare. Tutti i venti paiono insomma soffiarle contro, almeno fino a quando la signora Hall non viene sostituita da un nuovo insegnante – il signor Daniel – strenuamente deciso ad aiutare i talenti di ciascun allievo a emergere. Inizia così per Ally un anno scolastico rivoluzionario in cui sperimentare nuove attività, in cui costruire amicizie autentiche e in cui scoprirsi e rivalorizzarsi. Intorno a lei ruotano moltissimi personaggi – compagni e familiari soprattutto – di cui Lynda Mullaly Hunt offre fin dalle prime pagine una rappresentazione eloquente (capiamo fin dall’inizio, insomma, da chi guardarci le spalle e in chi riporre invece fiducia). Quello dell’autrice è un tocco suggestivo che dipinge dapprima pochi tratti essenziali e dettaglia poi col tempo, offrendo un quadro chiaro fin da subito ma invogliando anche a riconoscere che dietro ogni persona – piacevole e antipatica che sia – si nasconde una storia che val la pena scoprire prima di emettere giudizi definitivi.
Dalla sua penna esce un ritratto illuminante non solo dei personaggi che entrano in campo ma anche e soprattutto del problema che affigge fin dalle prime pagine Ally e che segna in qualche modo lo sviluppo del racconto. Mirabile è la maniera chirurgica in cui Lynda Mullaly Hunt disseziona e restituisce i sentimenti della protagonista di fronte alla squilibrata bilancia sforzi-successi della sua vita e al profondo senso di inadeguatezza (parola chiave che forse ben condensa il preciso focus del libro) che la dislessia le provoca, arrivando a minare la stessa capacità di desiderare. Con spunti interessanti sulla vergogna provata (che può portare a preferire l’apparire cattivi piuttosto che stupidi), sul sentirsi soli (cosa che ben si distingue dall’essere solitari) o sull’enorme potere riconosciuto alle parole (che come le uova vanno trattate con prudenza, “perché nessuna delle due cose può essere riparata”) , Un pesce sull’albero appare un prezioso concentrato di riflessioni sui disturbi specifici dell’apprendimento e sui vissuti che ad essi si associano: un piccolo saggio, insomma, nascosto in un bellissimo romanzo, che molti insegnanti e operatori troverebbero utile per la loro professione.
L’autrice riesce a costruire questo effetto, ricorrendo tra le altre cose a un uso efficace e ricorrente di immagini e metafore, come quella della moneta con un’imperfezione che vale più di una perfetta o delle farfalle che non volano in modo lineare cime gli uccelli ma va un po’ di qua e un po’ di là. Questa precisa scelta stilistica, mantenuta per l’intero corso del racconto, contribuisce a rendere incisiva la narrazione, rinvigorendo l’effetto coinvolgente già dovuto ad alcuni personaggi memorabili e ad una rara lucidità esplorativa di argomenti complessi. Si capisce chiaramente, prima ancora che l’autrice lo espliciti in terza di copertina, che le pagine trasudano un vissuto personale, che c’è consapevolezza e competenza tra le righe. Non solo, il libro guadagna credibilità anche dall’inserimento della dislessia in un contesto scolastico variegato, in cui le difficoltà e le diversità sono tante e differenti. La classe di Ally è in qualche modo una classe reale, dove c’è chi mangia in mensa grazie al contributo della scuola, chi fatica a mantenere la concentrazione, chi ha origini straniere, chi ha a che fare con i bulli e chi, appunto, ha difficoltà con la lettura.
In questo contesto, ciò che rende esemplare e straordinario un professore come il signor Daniels – vera figura chiave del romanzo, che tanto felicemente esprime il bisogno di maestri pazienti, caparbi e lungimiranti – è la capacità di riservare un occhio di riguardo a ogni allievo e alle sue specificità, di dedicare la giusta attenzione a ogni situazione e di cercare la strategia più adeguata per supportarla. Così, il professor Daniel insiste perché Ally si cimenti in un corso di scacchi che le renda chiaro il suo modo di pensare fuori dagli schemi, concorda con Oliver un segnale segreto per ricordargli di non farsi travolgere da parole e pensieri, e più in generale riserva una parola di incoraggiamento per ognuno dei “suoi fantastici”. Ecco, forse della parola “fantastico” il signor Daniels fa un uso un tantino eccessivo ma val la pena di perdonarlo. Irresistibile e travolgente è infatti il suo modo di fare, tanto che a stento si può resistere al desiderio di averlo (o averlo avuto) come insegnante. In lui ritroviamo prima di tutto la figura di un educatore – colui che ex-duce, che tira cioè fuori dai suoi alunni la loro personalità, la fiducia in loro stessi, la consapevolezza delle proprie capacità, dei propri limiti e del proprio “funzionamento”, piuttosto che limitarsi a ficcare nozioni dentro le loro zucche.
Ciliegina sulla torta, come gli altri volumi della collana in cui è inserito, Un pesce sull’albero è pubblicato ad alta leggibilità così da risultare più fruibile anche in caso di dislessia. Così come la serie di Hank Zipzer (peraltro ormai divenuta un classico in America e citata dall’autrice nel libro, creando un simpatico e involontario gioco di rimando interni per la casa editrice Uovonero) anche questo volume impiega un Verdana modificato (leggermente più piccolo rispetto ai libri di Lin Oliver e Henry Winkler, come si conviene ai lettori delle medie cui il libri principalmente si rivolge), una carta avoriata, una spaziatura maggiore e un’assenza di giustificazione testuale. Tutto questo contribuisce a fissare la lettura e a renderla meno ballerina agli occhi di chi come Ally si chiede “come faranno gli altri a leggere lettere che si muovono?”. Mai collana fu in qualche modo più azzeccata di questa delle Abbecedanze (il cui sottotitolo è per l’appunto: Quando le lettere non vogliono saperne di restare ferme, possiamo imparare a danzare con loro), per un libro che sulle lettere che “sembrano scarabocchi danzanti”, ha costruito un racconto davvero significativo.
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