Il mistero del Guggenheim
Recensione pubblicata il: 2/12/2017
De Il mistero del Guggenheim, all’inizio, c’era solo il titolo. Lo aveva indicato Siobhan Dowd firmando il contratto con la casa editrice inglese prima di morire purtroppo prematuramente. E così, dopo il successo de Il mistero del London Eye, la casa editrice inglese ha individuato una scrittrice di talento – Robin Stevens – e le ha chiesto di inventare e stendere il romanzo mai scritto dall’autrice scomparsa. Obiettivo: mettere in piedi una storia avvincente e credibile ma anche coerente con il titolo e con la solidissima cornice narrativa della prima indagine, di cui Il mistero del Guggenheim costituisce un ideale seguito.
Obiettivo tutt’altro che semplice e che ciononostante Robin Stevens ha abbracciato con entusiasmo. Ecco dunque che grazie a lei il formidabile Ted, ragazzo con sindrome di Asperger che vede il mondo a modo suo, sua sorella Kat, adolescente determinata e appassionata di moda e il loro cugino Salim, ormai ambientatosi nella Grande Mela dove si è trasferito con la mamma Gloria, tornano sulla scena per risolvere un nuovo giallo. Durante una vacanza che Ted, Kat e la loro mamma fanno a New York, si verifica infatti il furto di un prezioso quadro di Kandinskij all’interno del Guggenheim museum che Gloria dirige. Il fattaccio accade proprio mentre i protagonisti sono in visita al museo e siccome proprio la zia Gloria viene incriminata, i ragazzi iniziano a indagare per scoprire il vero colpevole. Ma la missione è tutt’altro che semplice: ci sono di mezzo rapporti personali e lavorativi complicati, bugie inerenti al furto e bugie da esso slegate, un piano ingegnoso per incastrare una vittima innocente, e loro tre, in fondo sono solo ragazzini. Ma hanno dalla loro, oltre a una motivazione molto forte dettata da ragioni familiari, anche una somma di abilità molto diverse e complementari tra loro, indispensabili per ricomporre tutti i pezzo del rompicapo. Tra queste spicca senz’altro l’acume fuori dagli schemi di Ted, capace ancora una volta di dare una svolta alle indagini e portare un lieto fine non solo rispetto all’arresto di Gloria.
Per chi come noi ha amato fortemente la prima storia di Ted, quel suo modo brillante e originale di mettere insieme sparuti indizi per ritrovare il cugino Salim e quel suo approccio alla quotidianità che dava voce e risonanza a un modo di essere dignitosamente diverso, le aspettative rivolte a Il mistero del Guggenheim erano altissime. Ma Siobhan Dowd è Siobhan Dowd ed eguagliarla dovendo al contempo rispettare una serie di caratteristiche narrative a lei proprie era cosa davvero ardua. Non si resta quindi sconcertati se il Il mistero del Guggenheim appare un po’ meno forte e incisivo del precedente episodio, per via di una trama forse un po’ meno travolgente e soprattutto di un protagonista meno tratteggiato nella sua neurodiversità che era poi il potente motore narrativo de Il mistero del London Eye. Al di là dell’inevitabile confronto con il libro da cui tutto è partito, il romanzo di Robin Stevens appare godibilissimo sia per il lettore meno legato al mondo di Ted sia per quello ad esso più affezionato, entrambi catapultati in una dinamicissima New York dove tutto può davvero succedere.
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