L’acchiappaidee

Parola d’ordine: acchiappare. Acchiappare le idee, come indica chiaramente il titolo del cofanetto progettato da Fabrizio Silei, ma anche acchiappare il lettore, con una proposta originale e coinvolgente, e infine acchiappare un progetto, provare a definirlo, cioè, nel suo essere vivacemente sfuggente. Perché tale appare L’acchiappaidee, che libro non è, gioco neppure, libro-gioco forse sì ma che è anche qualcosa di più.

Il suo contenuto è presto detto: un libro e un set da 144 tesserine illustrate fronte-retro. Il modo in cui i due elementi interagiscono tra loro e in cui è possibile, per il lettore-inventore, farli propri, beh, quella è tutta un’altra storia. Il libro propone infatti un racconto, il racconto di un pianeta su cui accadono cose, crescono foreste, compaiono creature bislacche e si formano città, un racconto che si sviluppa come un dialogo, che chiama il lettore ad attivarsi, e che viene illustrato proprio combinando le tesserine che accompagnano il volume, unite a qualche sparuto tocco di matita. Il libro è dunque una prima idea acchiappata, in questo caso dall’autore, e un manuale di istruzione sui generis che, una volta chiuso, lascia al lettore il testimone per dar vita a nuovi personaggi e nuove avventure.

Ciò che si può creare con le tesserine messe a disposizione, accuratamente studiate nei motivi e nei colori, è impossibile (oltre che probabilmente del tutto inutile) da circoscrivere: robot, mostri, animali e creature fantastiche non chiedono che di uscire allo scoperto ma anche gli ambienti e gli oggetti più disparati e, perché no, concetti astratti, possono prendere forma dalla giusta combinazione di tessere. Giusta per il lettore, chiaramente, perché se c’è una cosa certa di fronte all’Acchiappaidee è che il giusto e lo sbagliato sono categorie che sta al lettore definire sulla base della sua personalissima sensibilità e immaginazione. L’acchiappaidee – spiega lo stesso Silei in chiusura di volume – nasce proprio con questo scopo: restituire ai bambini la possibilità di “vedere e immaginare in piena libertà”, offrendo terreno fertile alla germinazione della “nostra unicità di esseri simbolici e metaforici”.

Secondo lo stesso principio di libertà, si sviluppa inoltre il processo creativo innescato dal contenuto del cofanetto. Poco importa, infatti, che le tesserine diano vita a singoli personaggi o a narrazioni complesse; che la loro combinazione ispiri lo sviluppo della storia o che al contrario sia la storia a stimolare la ricerca delle tesserine più adatte a rappresentarla: ciò che conta è che ciascuno sia messo nella condizione e si senta legittimato a esprimere la propria creatività. In questo senso L’acchiappaidee offre una possibilità di gioco, e in particolare di gioco inventivo e narrativo che tanto ha a che vedere con il piacere della lettura, ampiamente accessibile anche in caso di disabilità intellettiva o comunicativa. Non a caso il raffinato e attento progetto di Fabrizio Silei ha trovato calda accoglienza proprio in casa Uovonero che dell’accessibilità ha fatto la sua bandiera e la sua missione più potente. Dal confronto con l’esperienza della casa editrice in materia di autismo il progetto si è infatti arricchito, sviluppato, perfezionato, offrendo ora a un pubblico davvero trasversale, per età e abilità, uno strumento estremamente versatile e interessante con cui inventare, disegnare, raccontare. Da acchiappare, insomma!

Alice nel paese delle meraviglie (I classici con la CAA)

Di classici non se ne ha mai abbastanza. Con piacere registriamo dunque il continuo impegno di Erickson nell’adattamento in CAA di alcuni dei libri senza tempo più amati dai ragazzi. Dopo Il Piccolo Principe, Pinocchio e Il mago di Oz è ora la volta di Alice nel Paese delle Meraviglie: sfida delicatissima per chiunque si occupi di traduzione, anche e a maggior ragione se questa implica un codice così particolare come quello pittografico.

La scelta che viene fatta qui è quella di mantenere il più possibile intatta la vivacità narrativa, la varietà dei personaggi e la surrealtà degli avvenimenti che vedono protagonista la curiosa Alice, rinunciando però alla ricchezza di nonsense e di giochi linguistici che contraddistinguono e rendono indimenticabile l’originale: scelta che snatura in parte la peculiarità del lavoro di Carroll ma che risulta funzionale a un’effettiva fruizione del racconto anche da parte di bambini e ragazzi con difficoltà di decodifica del testo alfabetico e di padroneggiamento di un uso della lingua poco aderente al reale.

Come per i titoli precedenti, anche questo volume è frutto di un accurato lavoro di squadra che vede coinvolte diverse figure professionali. Il libro nasce infatti da un’opera di semplificazione testuale messa in atto da Carlo Scataglini (e ritrovabile nell’omonimo volume della collana I classici facili), di simbolizzazione a cura di Roberta Palazzi e di ricca illustrazione per mano di Cinzia Battistel e Giorgio Valentini.  Il risultato è un volume di grosso formato e di bellissimo aspetto, all’interno del quale le illustrazioni godono di un ampio spazio, ideale per supportare una lettura affascinante ma di per sé non facilissima e al contempo per offrire al lettore un libro che dica anche nella forma la preziosità del suo contenuto.

AFK

AFK, titolo dell’ultimo romanzo di Alice Keller uscito per Camelozampa, è una sigla probabilmente familiare solo ai ragazzi pratici di videogiochi online. Sta per Away From Keyboard e significa quindi impossibilitato a giocare (perché, per l’appunto, lontano dalla tastiera). Lontano dalla tastiera si ritrova infatti il protagonista della storia, Gio, quando sua sorella Emilia decide di trascinarlo con sé nella sua fuga da casa, dopo aver scoperto di essere incinta. E non è affar di poco conto, quella lontananza, perché Gio da due anni non esce di casa, vive attaccato e letteralmente immerso nei videogiochi online e non intrattiene pressoché relazioni sociali, nemmeno con i genitori. Dopo anni di (in)sofferenza e prese in giro, Gio ha infatti deciso di chiudersi in un mondo tutto suo in cui i 130 chili che ormai appesantiscono il suo corpo non possano essere motivo di scherno, in cui i tratti autistici che lui stesso spesso cita non devono riguardare nessun altro all’infuori di lui e dove le minacce e le reazioni fuori controllo che in passato lo hanno visto protagonista gli consentono finalmente di essere lasciato in pace. È una pace quasi catatonica, la sua: uno stato di simil-incoscienza in cui il giorno e la notte sono intercambiabili e nulla conta di più che portare a termine battaglie virtuali. Per questo la fuga quasi imposta da Emilia, che per una volta e di colpo esce dal suo ruolo di sorella perfetta mostrando fragilità e debolezze, scuote Gio come un terremoto, costringendolo a prove e decisioni complesse che non districano senz’altro la matassa emotiva che lo lega (anzi!) ma che forse schiudono in lui qualche prospettiva nuova.

Spiazzante, fuori dagli schemi e diretto come un pugno, AFK mette il lettore davanti a una bella sfida. Snello nell’aspetto, ma densissimo nella sostanza, il romanzo trascina letteralmente il lettore in quel mondo virtuale – pressoché sconosciuto agli adulti, a dirla tutta – che plasma visioni e abitudini. Alice Keller, che indiscutibilmente ha un dono raro per la scrittura, riesce a costruire un racconto che ha il ritmo di un videogioco, la stessa fulminea e rimbombante cadenza. E così par davvero di entrare nella testa di Gio, in quei meandri intricati e impastati di disagio, da cui il lettore si sente avvinghiato e quasi soffocato. La lettura diventa così una corsa a perdifiato in cerca di una via d’uscita, per il protagonista così come per chi lo segue tra le pagine. Ciliegina sulla torta: la stampa del volume ad alta leggibilità – abitudine ormai consolidata, peraltro, in casa Camelozampa – che lo rende ancora più prezioso nell’ottica di promuovere ad ampio raggio letture davvero vicine e a misura di ragazzi.

Ma una bella notte

Di fronte allo straordinario albo Ma una bella notte non c’è tempo da perdere: il racconto, pur privo di parole, incalza e comincia a svelarsi fin dai risguardi. Qui incontriamo la protagonista della storia che con aria mesta saluta alcune coetanee dal sedile posteriore di un’auto in partenza. L’auto è stracolma, con persino una poltrona legata in cima, ed è seguita da un camion che lascia poco spazio agli interrogativi. Di mezzo ci deve essere un trasloco: ipotesi confermata prima ancora di arrivare alla pagina del titolo, dove ritroviamo la ragazza circondata da scatoloni, in quella che si presume essere la sua nuova casa. Da qui si parte: scuola nuova, insegnanti nuovi, compagni nuovi. Le misure sono tutte da prendere e le amicizie tutte da costruire: cosa tutt’altro che facile nonostante la buona volontà. Così, dopo qualche vano tentativo di approccio e un nostalgico accumularsi di sconforto, la ragazza inizia a rimuginare davanti all’affascinante paesaggio notturno che si staglia fuori dalla sua finestra. Quell’isola misteriosamente illuminata che dall’altro lato della baia scintilla, attira la sua attenzione e la spinge a compiere un viaggio avventuroso e sorprendente. L’isola – scoprirà infatti – è popolata da conigli luminosi, che si fanno avvicinare e coccolare, lenendo un poco la tristezza della solitudine. Uno di essi, portato a casa e poi a scuola, diventa più che un amico: grazie a lui molti compagni sdegnosi iniziano ad avvicinare la ragazza, interessandosi a lei e al suo insolito animale. Ma proprio perché di un amico si tratta, viene il momento di restituirgli la libertà: un cambiamento, questo, che nonostante la prima impressione, regalerà alla protagonista l’opportunità di scovare tra tante attenzioni superficiali un sorriso autentico e duraturo.

Menzione speciale al Bologna Ragazzi Award 2017, Ma una bella notte è un libro potente, che anche grazie allo stile particolarmente espressivo dell’autrice, si presta bene a coinvolgere (e finanche travolgere!) bambini, ragazzini e ragazzi di età anche molto diverse. Il senso di solitudine, la nostalgia degli affetti lasciati, il desiderio di poter contare su un amico vero sono infatti sentimenti trasversali che facilmente toccano quando si è piccoli così come quando si cresce. La totale assenza di parole, d’altro canto, rende il volume fruibile per un pubblico variegato e ampio anche rispetto alle diverse esigenze di lettura. La necessità di elaborare inferenze non banali richiesta dal volume non lo rende particolarmente adatto a lettori che presentino difficoltà cognitive o scarsa abitudine alla decodifica delle immagini. Grande soddisfazione può attendere invece coloro che, pur con difficoltà di decifrazione alfabetica, si muovano con agio nel mondo dei racconti per immagini, anche complessi, e che abbiano voglia di immergersi fino ai capelli in una storia densa e capace di risuonare a lungo.

Che cos’è una sindrome?

Alla domanda Che cos’è una sindrome?, il dizionario Garzanti risponde secco: “il complesso dei sintomi che denunciano una situazione patologica senza costituire di per sé una malattia autonoma”. Ottimo, l’interrogativo può dirsi a questo punto soddisfatto da un punto di vista squisitamente medico. Ma siamo certi che basti a dirci cosa significhi, nella quotidianità delle azioni e dei sentimenti, avere una sindrome? Se è vero come è vero che una persona non è la sua disabilità o la sua malattia, è importante provare a scavare un po’ più a fondo per cogliere e mettere in luce ciò che della convivenza con una sindrome, dizionari e manuali non danno notizia. Ed è proprio quello che ha fatto Giovanni Colaneri per il suo progetto di tesi all’ISIA di Urbino che oggi è diventato un raffinato albo illustrato per i tipi di Uovonero.

25 doppie pagine intensissime si susseguono qui, ciascuna contraddistinta da un’illustrazione di grande dimensione e da poche parole che rispondono alla domanda del titolo. Perché una sindrome può essere tante cose: non solo può avere tante cause e tanti effetti, ma soprattutto può essere vissuta in tanti modi, anche da parte della stessa persona. Con le sue ricche figure, in sottile dialogo con le parole centellinate che le accompagnano, l’autore socchiude e talvolta spalanca finestre inattese nel lettore, non solo restituendogli prospettive poco battute (una sindrome come un attacco, per esempio, un sentiero o un movimento continuo) ma anche offrendo chiavi di lettura nuove per prospettive più sedimentate (una sindrome come qualcosa di raro, potenzialmente preziosa come una gemma, per esempio).

Di grande suggestione per lettori maturi o per gruppi guidati di lettori giovani e giovanissimi, ogni quadro è una possibilità di pensiero nuovo, uno spunto, uno slancio, che come suggeriscono bene i risguardi, non vuole dare risposte nette ma piuttosto far fiorire gli interrogativi.

La voce del branco

La scrittura di Gaia Guasti ha, su tutte, due caratteristiche che la rendono notevole: è incisiva come poche e sa scavare nell’animo degli adolescenti con una minuzia chirurgica. Forte di questi due tratti, il suo ultimo romanzo La voce del branco trascina letteralmente il lettore tra le pieghe più profonde dell’animo di Mila, Ludo e Tristan, tre ragazzi che dall’oggi al domani si trovano a fare i conti con una misteriosa metamorfosi e con l’ineludibile richiamo di una natura selvaggia tutt’altro che umana.

Amici fin dalla primissima infanzia ma progressivamente allontanatisi con la scelta di scuole superiori diverse, i tre si ritrovano ogni anno lo stesso giorno – il 15 novembre – nello stesso posto – la sorgente ai piedi del Picco delle anime – per festeggiare i loro compleanni. È una sorta di rito segreto il loro, un momento a cui nonostante le differenze sempre più marcate tra le loro vite non riescono a rinunciare. È sempre stato così ma qualcosa di inatteso, un 15 novembre diverso dagli altri, accade: i tre ragazzi, appena riunitisi, vengono  infatti attaccati da un branco di lupi. Non è un attacco mortale e non è un attacco casuale, quello che li coinvolge: dal momento in cui vengono morsi, Mila, Tristan e Ludo avvertono un cambiamento progressivo, apparentemente inspiegabile e senza dubbio spaventoso, che mescola la loro identità umana a quella di lupi. In maniera sempre più insistentemente, la loro nuova natura ferina si fa spazio e li chiama a gran voce, imponendo loro di abbracciare una vita via via più selvaggia e di imparare a misurarsi con istinti e bisogni mai sentiti prima. Perché questo, in fin dei conti, esige il destino da licantropi che il morso dei lupi ha disegnato per loro: mettere “a tacere la mia coscienza umana per scoprire un altro corpo, un altro passo, un altro sguardo sul mondo?”, come spiega bene Mila verso la metà del racconto.

E il lettore che fa? Travolto da una narrazione incalzante, segue i tre ragazzi nelle loro successive trasformazioni, nella paura di essere scoperti da familiari e amici, nella caccia spietata che una sinistra lupa rossa dà loro e nel tentativo di fare luce sulle inquietanti morti che hanno accompagnato la metamorfosi. Lo fa col fiato corto e il cuore in gola perché il ritmo che l’autrice riesce a imprimere alla narrazione aderisce come una seconda pelle ai sussulti emotivi e ai minimi cambiamenti che i ragazzi percepiscono nel loro essere, rendendoli tangibili all’immaginazione di chi scorre le pagine. È così che la metamorfosi si svela poco a poco, tra aspetti oscuri e verità che man mano prendono forma, proprio come accade ai protagonisti del romanzo. Nel cuore delle avventure e delle prove che Mila, Tristan e Ludo si trovano ad affrontare, si va delineando in maniera sempre più netta e distinta la forza protettiva, rassicurante e persino curativa dell’amicizia, chiarissima forse solo a chi – come i bambini e gli animali – sperimenta senza alcuna remora una vicinanza – fisica ed e motiva – quasi istintiva, con l’altro. In un crescendo di tensione ed emozione, il romanzo si chiude con una fuga nel bosco dei tre protagonisti che alimenta come un mantice la curiosità del lettore verso il seguito della saga (in uscita a novembre): un ingrediente da non sottovalutare, questo, che insieme alla scelta di Camelozampa di impiegare caratteristiche di stampa ad alta leggibilità, può fare la differenza nell’ardua sfida di solleticare anche lettori meno propensi a frequentare i libri o con maggiori difficoltà ad affrontare la lettura.

 

Farfariel

Farfariel è il titolo di un romanzo insolito e coraggioso pubblicato da Uovonero nel 2018 per un pubblico di lettori forti. È insolito e coraggioso perché racconta di un luogo e di un tempo distanti dal presente (eppure da questo per nulla scissi) quale la campagna abruzzese del periodo fascista, e lo fa scegliendo una lingua fedelissima al quadro scelto, in cui dialetto e italiano si fondono e si contaminano profondamente.

La storia narrata è quella di Micù, bambino tenace e intelligente a cui la poliomielite ha lasciato in eredità una costituzione gracile, una salute instabile, una statura ridotta e una gamba zoppa: caratteristiche che segnano profondamente la sua quotidianità, tra dolori fisici, prese in giro malevole e stupidi pregiudizi dettati dalla credenza popolare. Ma Micù è forte di spirito e questi ostacoli impara a saltarli col suo personalissimo passo, soprattutto quando l’arrivo di un diavolo impertinente di nome Farfariel lo costringe a mettersi sulle tracce di un libro misterioso che condizionerà radicalmente la sua vita e il suo modo di affrontarla.

È una vita tutt’altro che in discesa, quello di Micù, costretto a fare i conti con un periodo storico molto duro e un contesto socio-culturale molto arretrato e povero. Qui la distanza tra signorotti e braccianti è netta e apparentemente incolmabile, ben rappresentata da personaggi ben definiti e capaci di portare con sé una precisa visione dell’esistenza. Intorno a Micù si muove infatti una moltitudine di personaggi che incarnano valori molto diversi tra loro: due su tutti il papà di Micù, lavoratore infaticabile e a tratti violento che a testa china si rassegna al suo destino sottomesso e che in esso proietta anche il destino del figlio, e il nonno Tatà che, forte di un passato avventuroso in America (o per meglio dire, lamerica, di cui reca traccia la sua lingua misteriosa e affascinante), porta avanti e trasmette a Micù l’idea di un necessario e giusto  riscatto sociale.

Densissimo e ricco di memoria, Farfariel non è un libro immediato o leggero. La sua lettura – vuoi per la lingua impastata di dialetto, vuoi per le vicenda che affondano in un contesto sopito – mette il lettore di fronte a una sfida consistente e impegnativa ma che, se accolta e affrontata con determinazione, può offrire un bagaglio prezioso di spunti e nondimeno un certa ironia.

Le piccole vittorie

Le piccole vittorie è un racconto autobiografico a fumetti in cui l’autore, il canadese Yvon Roy, offre al lettore la sua personalissima esperienza di papà di un bambino con autismo. La graphic novel ripercorre infatti la storia della sua famiglia alla luce di quella diagnosi che ne ha fortemente segnato lo sviluppo. Dalla nascita di Olivier all’accettazione del suo peculiare modo di stare la mondo, dalla rottura della coppia genitoriale agli sforzi per mantenere comunque sereni i rapporti famigliari, dall’iniziale incomprensibilità di una diversità inattesa alla messa a punto di strategie creative per costruire un rapporto padre-figlio unico e solido. Yvon non fa mistero, infatti, dello spiazzamento che la diagnosi di autismo di Olivier ha portato nella sua vita e delle amorevole soluzioni che di giorno in giorno sperimenta per farlo crescere, per dimostrargli il massimo supporto e per consentirgli di affrontare con successo limiti e sfide che talvolta parrebbero (o verrebbero presentate come) insuperabili. Così Yvon si ingegna, per esempio, per accompagnare Olivier a fronteggiare piccole grandi paure, per accogliere cambiamenti dentro e fuori casa e per sperimentare nuove abilità, in un cammino che non manca di cadute ma nemmeno di possibilità di rialzarsi. Il risultato è un racconto vivo, forte ed emozionante, che mette in luce l’importanza di un ruolo spesso trascurato quale quello paterno  nella costruzione di un percorso di vita pieno da parte di bambini e ragazzi con disturbo dello spettro autistico.

Schiettissimo e disposto a soffermarsi anche su sfaccettature intime o dolorose di una vita famigliare segnata da una diagnosi complessa, Le piccole vittorie si rivolge soprattutto ai lettori adulti e condivide alcune profonde riflessioni con un altro bellissimo e recente fumetto sulla genitorialità, con un punto di vista squisitamente paterno, quale quello di Fabien Toulmé uscito per Bao Publishing con il titolo Non è te che aspettavo. Anche Yvon Roy, come il collego francese, rivendica la scelta di raccontare una storia personalissima che non pretende di offrire ricette, verità o rappresentazioni universali, ma prova piuttosto a condividere un percorso di vita particolare nel quale ci si possa riconoscere o si possa trovare un sostegno e un incoraggiamento.

Il mago di Oz

Il lavoro che negli ultimi anni Erickson ha portato avanti sul fronte dell’adattamento dei classici della letteratura per l’infanzia a uso di lettori con difficoltà comunicative è importante e prezioso. Lo è soprattutto perché condotto con grande rispetto a attenzione nei confronti dei testi originali e con il coinvolgimento di molteplici figure le cui diverse professionalità sono garanzia di un prodotto finale che unisce con efficacia accessibilità e qualità estetica. Lo avevano mostrato già i primi due titoli della collana I classici con la CAAPinocchio e Il piccolo principe – e tornano ora a confermarlo i titoli più recenti come Il mago si Oz.

Felicemente illustrato da Giulia Orecchia, il libro restituisce al lettore tutta la vivacità dell’immaginario di Lyman Frank Baum con tavole in cui i colori si fanno protagonisti e i personaggi  toccano nel vivo la fantasia del lettore. Le incisive illustrazioni dell’artista milanese sono frequentissime (una ogni doppia pagina), il che concorre a rendere il libro una vera delizia per gli occhi e a fare dell’immagini un elemento chiave per l’aggancio, la comprensione e la rappresentazione della storia nella mente del lettore.

Per quanto semplificato e adattato, infatti, il racconto non è affatto banale sia per la ricchezza di eventi e personaggi coinvolti, sia per la lunghezza e il corpo del testo. Dal punto di vista narrativo vengono mantenuti infatti tutti gli episodi principali del romanzo – dall’incontro con il Boscaiolo di stagno, lo Spaventapasseri e il Leone all’arrivo nel regno di Oz, dall’incontro con la strega dell’Ovest all’avventura con le Scimmie Volanti, dalle ricompense del grande Oz al ritorno a casa – mentre da quello sintattico non mancano frasi di una certa lunghezza o composte da subordinate ed elementi lessicali poco comuni. Il libro si pone dunque come proposta di lettura adatta a un pubblico con difficoltà non troppo marcate e/o con una certa dimestichezza già accumulata con la lettura in simboli.

Scelti all’interno della collezione di WLS (Widgit Literacy Symbols), questi coinvolgono tutte le parti del testo (non solo quelle lessicali, quindi) e comprendono sia l’elemento alfabetico sia l’elemento grafico all’interno del riquadro. La loro distribuzione sulla pagina, come da modello inbook, segue la punteggiatura della frase così da rendere più agevole la lettura. Allo stesso scopo va sottolineata l’iniziativa dell’editore di corredare il volume cartaceo di una registrazione audio del testo, scaricabile gratuitamente grazie a un codice inserito in prima pagina: un accorgimento tutt’altro che irrilevante nell’ottica di rendere la fruizione del racconto il più possibile ampia e adatta a esigenze differenti.

Il piccolo vagabondo

Il piccolo vagabondo è un essere dall’aspetto reale e dall’indole fantastica, un ometto dall’aria affabile che viene in soccorso di viaggiatori e viandanti per aiutarli a ritrovare la strada e forsanche loro stessi. Con questo scopo egli compare con regolarità, facendo da trait d’union tra le sette storie che compongono la bellissima raccolta di brevi racconti senza parole firmati dalla giovane Crystal Kung. Cinese di nascita, taiwanese d’adozione e infine cosmopolita di spirito, l’autrice ha infuso ne Il piccolo vagabondo  la sua personalissima inclinazione al viaggio e tutto il ventaglio di emozioni e di epifanie che questo può recare con sé.

Dallo smarrimento al riscatto, dalla rinascita alla memoria: il variegato carico di esperienze che può nascere dall’incontro con il mondo è prima racchiuso e poi schiuso dai sette personaggi che escono dal suo finissimo pennello con una forza e una vividezza rare. C’è per esempio un ciclista che si perde e si ritrova finalmente tra le strade tortuose del Tibet, una giovane donna che riscopre la sua identità in una città apparentemente estranea o un anziano che grazie a un ombrello giallo ricevuto in dono riassaggia per un istante la sua giovinezza: tutte figure che interpretano sfaccettature differenti di un percorso di ricerca ed esplorazione, e che in qualche modo arrivano a una svolta sul loro sentiero grazie al provvidenziale intervento di quel piccolo vagabondo che all’occorrenza compare e scompare.

L’universo narrativo che grazie al particolare stile di Crystal Kung pare letteralmente prendere vita a filo di pagina è sospeso tra la dimensione reale e quella squisitamente onirica. Immergervisi offre al lettore un’occasione preziosa di confrontarsi non solo con sette storie emblematiche ma anche con il proprio personale bagaglio di ricordi e propositi, di orizzonti e radici, in un viaggio che dalla pagina muove nel profondo. Si tratta di un viaggio incantevole e struggente che l’autrice rende possibile grazie a un racconto per immagini che cattura il lettore e gli domanda un costante e raffinato coinvolgimento. Tutt’altro che immediata ed elementare è dunque la decodifica dei quadri che compongono il volume e della loro successione, a riprova del fatto che un’educazione all’immagine è tanto necessaria quanto quella al testo e che l’assenza di testo non significa automaticamente accessibilità della storia. Lettori curiosi e predisposti a itinerari narrativi arditi che manifestino spiccato interesse per il potenziale narrativo delle figure possono trovare qui una proposta appagante, avvincente, ricca e stimolante.  E ben sappiamo quanto di questo ci sia bisogno per tutti quei ragazzi che pur scontrandosi con forti difficoltà nella decodifica del testo, mostrano grande piacere, abilità e soddisfazione nell’attardarsi e confrontarsi con la sfida delle immagini.

Nel buio

C’è il buio reale: quello della notte, delle stanze oscure e, non ultimo, della cecità. E poi c’è il buio metaforico: quello della solitudine, dell’incomprensione, della tristezza. Può capitare che i due si incontrino, generando un cortocircuito che può risultare, paradossalmente, illuminante. O almeno questo è ciò che accade all’interno di Nel buio, un libro intenso e fuori dagli schemi, a partire dal fatto che prende in prestito alcuni tratti propri dell’albo illustrato pur rivolgendosi  a un pubblico di lettori non piccolissimi.

Protagonista della storia è un adolescente dal fragile contesto famigliare che si atteggia a bullo, ricordando ogni tre per due a sé stesso, prima ancora che agli altri, quando si senta un duro e possa fare a meno di legami di ogni tipo. Il suo nome è Lucio, il che ha il sapore di un’anticipazione narrativa se pensiamo che l’incontro con Chiara, altro nome non casuale, sarà per lui letteralmente illuminante. Succede infatti che nel corso di una gita scolastica in visita a una grotta (che poi si scopre essere il percorso Dialogo nel buio), Lucio si perde e, l’oscurità più totale lo costringe a confrontarsi con le sue debolezze e con la bellezza di poter a volte fare affidamento su qualcun altro. È Chiara, per l’appunto, quel qualcun altro che regala a Lucio un po’ di fiducia nel prossimo, conducendolo fuori dalla grotta e accendendo un poco il suo cammino. Chiara è infatti cieca e al buio si muove con naturalezza: il suo incedere saldo e gentile, proprio là dove Lucio incespica e le sue sicurezze si sgretolano, le permette di aprire uno spiraglio in quell’animo torvo e chiuso in maniera apparentemente ermetica.

Capace di parlare a orecchie e occhi giovani e ribelli anche grazie a una grafica coraggiosa (tutta giocata sui toni scuri) e accattivante (in cui a immagini ampie si affiancano brevi didascalie e balloon), Nel buio offre  ad adolescenti e preadolescenti un’occasione di lettura insolita, in cui la dimensione del reale e del simbolico si intrecciano in maniera forte e incisiva.

Confini

Capita talvolta di imbattersi in libri così ricchi e folgoranti che dirne diventa cosa difficile. Difficile scegliere da dove partire, difficile trovare le parole aderenti alla meraviglia, difficile condensare una gran mole di spunti in poco spazio. Ecco, Confini è in tutto e per tutto uno di quei libri: un volume cioè su cui vale la pena attardarsi e lasciar sedimentare folgorazioni e lampi.

Di un’attualità purtroppo disarmante, il libro curato da Antonella Veracchi e Michela Tonelli percorre i diversi tipi di barriere che limitano o impediscono non solo gli spostamenti delle persone ma anche e soprattutto le loro relazioni. I confini, così come il libro illustra in maniera davvero incisiva, sono infatti geografici ma anche mentali, culturali e comunicativi. Così, sfogliando ed esplorando le pagine essenziali ma densissime di pensiero che compongono questo albo, ci si trova ad attraversa corsi d’acqua e catene montuose, distese desertiche e muri altissimi, barriere metalliche e labirinti di parole: linee “accoglienti o respingenti”, a seconda dello sguardo che vi si posa e dell’atteggiamento che ne nasce. “Apriamo i confini” è l’invito conclusivo, che accompagna una busta in cui si raccolgono le testimonianze di chi lunghi viaggi e duri superamenti di confini, negli anni, li ha sperimentati sulla sua pelle e a cui si possono aggiungere i racconti degli stessi lettori. Un invito schiettissimo, chiaro e netto – in pieno e voluto contrasto con il tono evocativo delle altre pagine – reso necessario da un tempo in cui dire a voce alta da che parte si sta si è fatto drammaticamente importante.

Ecco, già così, per la maniera fortissima in cui il tema dello sconfinamento viene trattato, Confini meriterebbe una certa attenzione. Ma ciò che lo rende davvero straordinario, in realtà, è la maniera in cui il libro è costruito, latrice a sua volta di un messaggio forse ancor più potente. Confini non è infatti un comune libro tattile – composto cioè di illustrazioni a collage materico esplorabili e decodificabili anche al tatto e proposto dall’editore anche in una versione arricchita dal Braille – ma è un libro tattile in cui le mani non servono solo per godere delle illustrazioni ma anche e soprattutto per tessere relazioni.  In che modo? Il libro è costruito per essere aperto in verticale e per essere letto in tandem, da due lettori posti l’uno davanti all’altro grazie a un testo e a delle immagini che si presentano specularmente su una pagina e su quella di fronte. Questo fa sì che tra i due lettori si debba necessariamente stabilire una connessione, quantomeno per capire chi legge cosa e con che ritmo. Si legge insieme? Si legge un pezzo ciascuno? Ciò che c’è scritto su una pagina è uguale a ciò che c’è scritto su quella del compagno? L’unico modo per trovare delle risposte è mettere in moto la lettura, buttarsi, sperimentare. E questo di per sé chiede un primo moto di avvicinamento, di empatia. Dopodiché la spinta vera viene dalle immagini e in particolare dalla loro forma e collocazione. Costruite sfruttando meccanismi insoliti e ingegnosi come il labirinto o il popup e poste sempre a cavallo tra le due pagine, queste portano infatti inevitabilmente le mani dei lettori ad approssimarsi, toccarsi, prendere le misure e financo intrecciarsi in quella che pare una danza solitaria che diventa poco a poco un passo a due. Così, senza precise indicazioni se non quella di affrontare il viaggio della lettura insieme a qualcun altro posto di fronte, il libro si anima e un vero e proprio sconfinamento si attua, restituendo al lettore il senso più autentico del volume che ha tra le mani. Perché sconfinare, letteralmente e metaforicamente, significa avere l’occasione di allargare il proprio orizzonte, di guardare oltre, di incontrare l’inatteso.

Chiedendo silenziosamente di essere agito, Confini dà avvio a una possibilità di incontro inattesa e capace di smuovere nel profondo. Si fa cioè vero motore di relazione, il che ne rivela una potenza davvero straordinaria. Imperdibile.

 

 

 

Champion

La scrittura di Christophe Léon ha un potere magnetico che difficilmente lascia scampo. Incisiva, schietta e sempre puntualmente attenta al mondo che racconta, questa riesce a modellare narrazioni autentiche di cui il lettore sente forte e chiaro il valore: un fatto che avevamo largamente apprezzato qualche anno fa in Reato di Fuga (Sinnos, 2015) e che ora non manca di trovar conferma nel romanzo breve edito da Camelozampa e intitolato Champion. Anche qui c’è di mezzo un incidente d’auto (quantomeno potenziale): in piena campagna, su di una strada poco frequentata, si incrociano infatti Brandon, giovane promessa dell’atletica diretto a piedi allo stadio, e l’hummer che Luc, suo coetaneo, è intento a guidare senza permesso del padre e soprattutto senza patente. Cosa accada di preciso tra Brandon e l’hummer guidato da Luc non lo sappiamo fino alla fine e l’abilità dell’autore sta proprio nel fatto di mettere progressivamente a fuoco il momento dell’incontro e comporre intorno ad esso un complesso collage emotivo. Perché a margine (ma nemmeno troppo) di quell’incontro appaiono diversi altri personaggi, apparentemente senza legami con la vicenda principale e in realtà ed essa legati a doppio filo.

C’è Lauryanne, per esempio, che scorge Brandon lungo la strada e tenda di avvisarlo dell’arrivo del mezzo ma poi si disinteressa di quel che può essergli accaduto. C’è Abigail, la fidanzata di Brandon, che con lui aveva appuntamento allo stadio ma che interpreta il suo non presentarsi come un affronto personale. C’è Louella, la fidanzata di Luc, che vive in diretta la folle corsa sul pericoloso mezzo, tormentandosi a lungo sulle possibile conseguenze di quella bravata. E poi c’è il giovane David, ragazzo autistico intento a fare una consueta e lunga passeggiata proprio in prossimità del luogo incriminato e incapace di resistere alla tentazione di appropriarsi del paio di cuffie e del telefono che lì ritrova. Tutti in qualche modo sono indirettamente coinvolti nell’accaduto ma tengono la bocca chiusa per timore o per indifferenza. E sì che in quella curva con scarsa visibilità il giovane Brandon scompare, lasciando la polizia con un bel mistero da risolvere.

Che il giovane covasse pensieri tormentati lo scopriamo man mano, quando l’autore ci mette a parte della deprecabile proposta fattagli dall’allenatore e dal papà, di ricorrere all’aiuto del doping per poter ambire a importanti medaglie con minor tempo e fatica. Ecco allora che accanto al tema della responsabilità e della scelta, ricompare fortissimo anche il tema dello scontro generazionale e del significato più autentico che la parola adulto dovrebbe contenere. Il tutto attraverso un racconto polifonico in cui ogni capitolo porta uno sguardo e una voce nuova. Come in un cambio registico di inquadratura, ogni capitolo sembra cioè avviare una storia diversa mentre in realtà arricchisce quella già messa in piedi. L’effetto dal canto suo è insolito e vincente poiché porta nuova linfa narrativa a ogni ripartenza, fino al delinearsi complessivo del quadro in cui ogni filo trova il suo spazio e concorre a definire un unico disegno. Questa incalzante tensione narrativa, unita a una rara capacità di cogliere l’animo adolescente nel profondo fanno di Champion un romanzo estremamente coinvolgente. La sua brevità e la stampa ad alta leggibilità, inoltre, lo rendono particolarmente fruibile anche in caso di dislessia.

Dracula

Prosegue la preziosa esperienza di Parimenti, la collana di libri in simboli pensata per consentire l’accesso di giovani-adulti con difficoltà comunicative e cognitive ad alcuni grandi classici della letteratura internazionale. Dopo la felice pubblicazione de Il diario di Anna Frank, il 2018 ha portato infatti un secondo apprezzabile titolo, sempre edito da la meridiana e realizzato grazie alla collaborazione tra l’editore pugliese, il Centro Documentazione Handicap di Bologna e l’Associazione Arca Comunità “L’arcobaleno”. Si tratta in particolare dell’adattamento del capolavoro di Bram Stoker, Dracula.

Costruito, nel rispetto dell’originale, come un puzzle di diari e testimonianze di diversi personaggi, anche il Dracula di Parimenti racconta la storia del celebre vampiro della Transilvania a partire dal primo incontro tra questi e l’avvocato Jonathan Harker, chiamato a gestire per lui una trattazione immobiliare a Londra. Fin da questo primo incontro la stranezza e la pericolosità del conte, noto a tutti per la sua sete di sangue, si rendono manifeste contribuendo a rendere gli avvenimenti successivi – dall’arrivo a Londra della misteriosa nave carica di 50 casse di legno, un cane nero e un capitano morto al timone, agli inquietanti comportamenti notturni della giovane Lucy Westenra , dalla brutta fine che toccherà a quest’ultima alla caccia disperata a Dracula condotta senza risparmiarsi da  Harker, sua moglie Mina e gli amici Seward e Van Helsing – un concentrato di avventure da brivido. Nonostante le vicende, così come le descrizioni, siano infatti significativamente ridotte e semplificate, l’atmosfera horror e il crescendo di tensione che hanno consacrato il romanzo di Stoker vengono in qualche modo restituite al lettore.

Il testo, scritto in simboli WLS secondo il modello inbook, si presenta generalmente lineare ma non rinuncia a costruzioni sintattiche di una certa complessità, con più di una coordinata o subordinata. Tutti gli elementi della frase – compresi dunque pronomi, preposizioni e articoli – risultano inoltre simbolizzati. Da rimarcare infine l’attenzione mostrata dai curatori della collana a offrire esperienze di lettura il più possibile variegate e coerenti, proponendo di volta in volta illustrazioni di segno diverso e adeguate al testo trattato. Così, qui, le immagini curate da Melissa Ottonello Ferrati sottolineano il tono cupo della narrazione con uno stile contraddistinto da bianco e nero, ombre  e qualche tocco rosso sangue.

Davì

Davì ha diciannove anni, una corporatura secca secca, un look eccentrico in cui spicca una sgargiante cresta verde e una quotidianità che fa a meno di una famiglia. Abbandonato molti anni prima dalla madre e trascurato per il resto dal padre, Davì ha scelto di fare della città la sua dimora, esplorandone gli angoli di giorno e abitando un cantuccio del centro commerciale di notte. È la biblioteca, grazie alla presenza premurosa e attenta di Beatrice, il luogo per lui più simile a una casa: un posto in cui trovare riparo per il fisico e per i pensieri, in cui sentirsi accolto e in cui scambiare parole che fanno bene. Qui Davì viene spesso, tra un giro in città e un lavoretto alla libreria poco distante, nei momenti di svago e in quelli del bisogno, come quando viene violentemente aggredito o quando la sua vita viene messa in subbuglio dal folgorante incontro con la giovane Nicla. La biblioteca si fa cioè rifugio aperto, di fronte a una città che si mostra invece piuttosto diffidente. Perché la presenza di Davì, con quel suo aspetto trasandato e quel suo stile fuori dagli schemi, non passa inosservata e perlopiù vincola gli sguardi a giudizi sommari. Lo sa bene il lettore che conosce pian piano il ragazzo non solo attraverso il suo stesso racconto, tra ricordi del passato e un istintivo tentativo di ritrovarsi con la madre, ma anche attraverso quello dei passanti che per pochi istanti lo incontrano e lo inquadrano.

La vita di Davì, in effetti, è tutta un fuori quadro, in un mondo che invece quadrato vuole essere. Attraverso la sua storia, che mette a bene a nudo la fragilità dell’adolescenza, Davì dice tanto del bisogno di ciascuno di apparire, non tanto nel senso di mettersi in mostra quanto di non sentirsi invisibile. La sua esistenza fatta non a caso di presenze ed assenze, comparse e scomparse, vistosità e vita nell’ombra, è un concentrato di contrasti e incertezze in cui non è così difficile riconoscersi e a cui il giovane lettore può dunque restare facilmente agganciato, grazie anche a una narrazione che scivola in fretta ma non manca di lasciare il segno.

Come la storia del suo protagonista, animata nel profondo da partenze e ritorni, anche la storia del libro Davì è un viaggio con tante tappe. Pubblicato per la prima volta ormai diciotto anni fa dai tipi delle Edizioni EL, il libro di Barbara Garlaschelli è approdato nel 2013 in casa Camelozampa che ora lo ripropone ad alta leggibilità all’interno della curatissima collana Gli Arcobaleni. Davì si fa così esempio emblematico di un prezioso lavoro di riscoperta editoriale messo in piedi dalla casa editrice padovana, con l’intento di valorizzare titoli di qualità del passato ingiustamente dimenticati e di renderli fruibili ad un pubblico il più possibile ampio. Chapeau!

3300 secondi

3300 secondi sono poi 55 minuti, nemmeno un’ora. Cosa potrebbe succedere di tanto importante in un lasso di tempo così circoscritto? Molto, a dirla tutta. E Fred Paronuzzi lo dimostra al lettore con quattro storie di adolescenza che nel tempo di una lezione di scuola si sfiorano, si incontrano e soprattutto prendono una svolta. Tra le pagine di questo romanzo tanto intenso quanto breve c’è dunque la trepidazione di Julie per un amore fuori dagli schemi appena dichiarato, c’è il ricordo doloroso di Ilyes che prova a prendere le distanze dalla sua immagine di straniero, c’è il dramma di Océane che ha subito una violenza in un’unica serata di trasgressione e c’è la decisione di Clément di allontanarsi da un luogo in cui la morte della sorella si fa soffocante.

Le storie di Leah, Ilyes, Océane e Clément sono storie molto forti a cui ci si sente avvinghiati dopo  poche pagine, sono storie che portano a galla alcuni volti di un’interiorità adolescenziale che rischia di essere occultata da chi la vive e ignorata da chi la vede. La bravura di Fred Paronuzzi sta nel cogliere tutta l’autenticità e la familiarità di storie così singolari, sicché anche in un racconto di immigrazione, di violenza, di lutto o di omosessualità il lettore si rispecchia anche se l’esperienza narrata parrebbe non gli appartenergli affatto. Perché sono le emozioni, la fragilità, la ricerca di un’identità soddisfacente e il desiderio di prendere in mano il proprio destino a parlare davvero a chi legge questo libro, il che la dice lunga su quanto sia potente.

Insieme a Davì di Barbara Garlaschelli e Maionese, ketchup o latte di soia di Gaia Guasti, 3300 secondi dà avvio a una serie di pubblicazioni ad alta leggibilità targate Camelozampa e inserite all’interno della collana Gli arcobaleni. I titoli in questione, come in passato accaduto per Dante Pappamolla e più recentemente per Madelief lanciare le bambole, sfruttano il carattere tipografico Easyreading che risulta meno stancante alla vista e più leggibile anche in caso di dislessia.  

Il Diario di Anna Frank

Benvenuta Parimenti, aspettavamo da tanto tempo una collana come te! Già, perché Parimenti è la prima collana di libri in simboli per giovani adulti pubblicata da un editore italiano: una proposta di cui ragazzi con disabilità comunicativa e cognitiva lamentavano la tempo l’assenza e che oggi trova un primo significativo spazio, grazie al coraggio e all’impegno delle edizioni la meridiana e al progetto promosso insieme al Centro Documentazione Handicap di Bologna e all’Associazione Arca Comunità “l’Arcobaleno” Onlus di Granarolo.

La collana, inaugurata a gennaio 2018, si apre con Il diario di Anna Frank, di cui propone una versione ridotta, adattata e simbolizzata.  Del lungo e noto diario lasciatoci in eredità dalla tredicenne tedesca è stato infatti selezionato un numero contenuto di passaggi significativi, tale da garantire un equilibrio misurato tra resa del testo e del contesto originale e comprensibilità della vicenda. Così il lettore trova la giovane Anna nel giorno del suo compleanno, quando riceve in dono il diario e  decide di chiamarlo Kitty e confidargli la sua storia; nel giorno in cui con la sua famiglia, prima del previsto, dalla polizia tedesca e si rifugia in un appartamento segreto; negli infiniti giorni seguenti in cui tra la paura, la noia, la fame e la tristezza dominanti cercano di farsi spazio alcuni brandelli di normalità, come il primo tenero amore con Peter o l’invenzione di un modo creativo per preservare la magia dello scambio dei doni di san Nicola. Tutto questo mentre fuori la guerra si inasprisce, le perquisizioni della Gestapo si fanno temibili e le notizie di una futura liberazione arrivano come un’eco senza una precisa data in cui sperare.

Ecco dunque che, anche grazie alla concisa ma puntuale introduzione al volume, anch’essa in simboli, questa particolare versione de Il Diario di Anna Frank riesce a mettere a fuoco, anche agli occhi di chi arranca su di un testo tradizionalmente scritto, ciò che di davvero urgente c’è nel racconto della giovane Anna: la quotidianità travolta, l’umanità vessata, i sentimenti di paura e incomprensione, la vitalità giovanile che cerca spazi di espressione e sopravvivenza, l’insensatezza di una guerra e di una pulizia etnica che non trova alcuna forma di sensatezza.  Il senso profondo de Il Diario di Anna Frank trova quindi nuova forma espressiva in un testo rielaborato in modo da risultare più lineare e diretto e funzionale a una resa tramite codice simbolico. Le frasi prive di costruzioni arzigogolate e contraddistinte da un lessico perlopiù piano vengono infatti simbolizzate facendo ricorso ai Widgit Literacy Symbols: la collezione di simboli adottata dagli inbooks e particolarmente indicata per la traduzione di un testo preesistente. Piuttosto versatile e ricca questa si presta bene a trascrivere in simboli un denso come quello in questione e adatto a lettori che non alle prime armi.

Perché in effetti sono proprio i lettori a essere al centro di un progetto editoriale (e non solo) come questo: quei lettori che crescono con un forte bisogno (e diritto) di confrontarsi con i pari e con la realtà che li circonda ma che spessissimo non trovano gli strumenti adatti a supportare e accompagnare questo bisogno. Perché per essere cittadini attivi, partecipi e coinvolti è necessario poter maturare delle riflessioni, poter conoscere la propria storia, poter ampliare il proprio sguardo con le narrazioni più profonde, e poter costruire il proprio pensiero anche in relazione a quello di altri. Ma è prima di tutto necessario che questi siano possibilità riconosciute a tutti, anche ai ragazzi con disabilità cognitiva e comunicativa. Solo, cioè, partendo dal presupposto – elementare ma tutt’altro che scontato – che il pensiero non sia annullato dalla disabilità e necessiti quindi di adeguato nutrimento, è possibile attivare progetti efficaci e segnare un percorso di reale crescita e inclusione. E questo è esattamente ciò che un progetto come Parimenti fa, mettendo in campo la consapevolezza che i ragazzi con disabilità crescono  e con loro cresce la voglia di confrontarsi con un mondo, un tipo di narrazione e un pensiero via via più complessi.

Non è te che aspettavo

Dire tutto quel che c’è da dire e farlo con un’ironia fine e profonda, ecco la dote rara di Fabien Toulmé, autore, voce narrante e protagonista dello splendido fumetto Non è te che aspettavo. Nella graphic novel portata in Italia da Bao Publishing c’è il racconto di una diagnosi  temuta, di una paternità travagliata, di un amore genitoriale che arranca prima di spiccare il volo.

Facciamo la conoscenza di Fabien in Brasile, durante la seconda gravidanza della moglie Patricia, in occasione delle primissime ecografie che sembrano non rivelare alcuna criticità per la bimba in arrivo. Poi lo seguiamo nella periferia parigina,  dove la coppia con la prima figlia Louise, si trasferisce a gravidanza inoltrata: i mesi passano, nuovi esami si accumulano, ma nulla ancora  lascia presagire un’anomalia nel feto. Eppure Fabien ha come un presentimento e l’irrazionale timore che la sua bimba possa avere qualcosa che non va. Che possa avere la Sindrome di Down, più nello specifico: una forma di diversità che fin dall’infanzia lo turba e gli reca un senso di respingimento. Perciò quando dopo il parto è proprio questa diagnosi ad arrivare, non è una tegola che gli cade sulla testa ma un tetto intero. Trascorrono settimane di tormento, in cui Fabien si sente lacerato da sentimenti contrastanti: c’è la delusione per una figlia che non somiglia affatto a quella che si era immaginata e per una vita che prenderà una strada diversa da quella che aveva programmato; c’è la rabbia verso quei dottori che non hanno saputo prevedere il problema; c’è l’invidia verso i genitori più fortunati; c’è  il senso di colpa verso una moglie che sa accettare la figlia con una naturalezza sbalorditiva e c’è lo spaesamento più totale rispetto a una forma di paternità che non sente affatto propria. Tutto si riflette in una quotidianità che si trascina pesante, in cui anche i momenti di più intima relazione con la piccola Julie diventano fardelli, in cui tocca trovare il modo di dire, a conoscenti e sconosciuti, la diversità della propria figlia e infine quella diversità guardarla in faccia. E forse è proprio quando Fabien trova quel coraggio lì, quello cioè di guardarla negli occhi la diversità di Julie, che qualcosa davvero cambia e che l’autore finalmente dice: “Mi sentii felice, felice di essermi evoluto, di non vedere più l’handicap ma il bambino”.

Ecco, qui forse sta il punto più delicato della faccenda: siamo umani e la diversità ci spaventa, anche quando riguarda persone a noi carissime e a cui siamo strettamente legati. L’handicap può distorcere la nostra percezione degli individui e dei rapporti, richiedendo un preciso sforzo di rimessa a fuoco dello sguardo. È dunque un vero e proprio percorso quello che porta a mettere da parte l’irrazionale per cogliere l’umanità di ciascuno e scongelare le emozioni: un percorso non semplice ma possibile, e che come tale va promosso. Il percorso di Fabien, tanto più duro e tormentato perché vissuto in veste di papà, è dunque il percorso che riguarda noi tutti e che sta alla base della costruzione di una società inclusiva. Ecco perché un libro come Non è te che aspettavo merita, fortissimamente merita, una lettura attenta e appassionata, non solo da parte di chi una disabilità la sperimenta o l’ha sperimentata in qualità di genitore e che in queste pagine può ritrovarsi e ritrovare un sentiero.

E poi, aspetto tutt’altro che secondario, non solo il libro racconta così tanto della disabilità, della genitorialità, della fratellanza, della relazione e del rapporto tra mente ed emotività ma lo fa con la provvida leggerezza che solo un maturo e ponderato lavoro di elaborazione personale, oltre che di talento innato, può generare. Le tavole che compongono Non è te che aspettavo, pulite e giocate sul monocromatismo (un colore per ogni capitolo), colgono nel segno grazie a un’ironia che aiuta a dire ciò che non è facile dire e che restituisce, in maniera ancor più autentica e irresistibile, il lato profondamente umano del protagonista. Anche e soprattutto per questo Non è te che aspettavo è un libro raro. Un libro che sa portare alla luce un carico pesante di sofferenza, con una delicatezza saporitamente umoristica.

Eppure sentire

Silvia va per i quindici anni, frequenta il liceo classico, gioca a pallavolo e ha recentemente avuto un incidente sulla corriera che la portava a scuola: un grosso schianto con un tir proprio in corrispondenza del suo sedile e una ferita importante in testa. Ma soprattutto un aumento del danno all’udito con cui la ragazza combatte fin dalla nascita a suon di protesi – due giraffe a macchie che sono ormai parte di lei – e di instancabili esercizi di ascolto e lettura del labiale condotti insieme all’amorevolissima mamma. Insomma, l’incidente non ci voleva proprio, soprattutto perché concorre a rendere inderogabile la decisione che Silvia rimanda da tempo: sottoporsi o meno all’intervento per l’impianto cocleare.

Accanto e intorno a questa decisione ruotano eventi, incontri, pensieri in un turbinio che solo l’adolescenza è in grado di tenere insieme: le amicizie che nascono e che muoiono, l’amore che sboccia, le attività di volontariato, le feste, le prime responsabilità, il senso di esclusione, il desiderio di mascherare la propria diversità, i sentimenti complessi nei confronti dei propri familiari. Il tutto con l’inscalfibile consapevolezza che la sordità resta un marchio a cui è difficile sottrarsi, un fardello che condiziona ogni azione e rappresentazione di sé nel presente e nel futuro. Lo dice chiaramente, Silvia:

Se hai già fallito una volta, nascendo sorda, non puoi fallire più. Anzi, come minimo, per recuperare non devi essere solo normale, devi essere eccezionale, sorprendente, sorprendere tutti, che progressi la bambina, chi l’avrebbe mai detto, , chi si aspettava questi risultati, meglio del previsto…”

Forte anche di un personaggio ispirato a una persona reale e davvero ben delineato,  Eppure sentire appare un romanzo forte, coinvolgente e vero, che tocca corde profonde e commuove fino alle lacrime. È un romanzo che parla chiaro alle orecchie dei ragazzi, anche a quelle di chi non sente bene o non sente affatto, scoprendo al contempo tutta la normalità e tutta l’unicità di un’adolescenza segnata da una disabilità invisibile come la sordità. Ma è anche una celebrazione degli spazi di possibilità che ciascuno ha il diritto e il dovere di ritagliarsi, qualunque sia la sua forma di diversità rispetto agli altri.

One

Grace e Tippi portano i nomi di due muse del cinema hitchcockiano, il che – come loro stesse notano – ha un che di ironico se si considera il lato innegabilmente inquietante del loro aspetto. Gemelle siamesi, le due ragazze condividono il corpo dall’intestino in giù, sfidando ogni santo giorno la curiosità morbosa e la maleducazione malcelata della gente,  che si scatenano di fronte a una diversità tanto marcata. Abituate  a una quotidianità  che richiede sincronia e sostegno reciproco, Grace e Tippi si trovano dall’oggi al domani a dover rinunciare alle lezioni private e frequentare una scuola vera e propria. Servirà loro una dosa massiccia di pazienza e di coraggio per far fronte agli sguardi stupiti, alle domande sfacciate e ai gesti scortesi che frotte di coetanei riverseranno loro addosso. Ma Grace e Tippi sono ben allenate a far fronte a tutto questo, al punto che quando dalla massa di studenti emergono Jon e Yasmeen, due amici disposti ad accogliere le due ragazze per come sono, senza troppe domande o condizioni, queste non possono credere ai loro occhi. Sarà invece un’amicizia stramba e schietta quella che legherà i quattro ragazzi, anche e soprattutto quando le cose si metteranno male, quanto a quattrini e salute.

È in particolare la voce di Grace, la più timida e fragile delle due gemelle, a portare il lettore dentro questo momento di svolta, mettendolo a parte del contemporaneo incontro con Jon e Yasmeen, dell’affetto smisurato per la sorellina Drago, del rapporto con un padre caduto nella trappola dell’alcolismo e con una madre travolta dal lavoro, dell’improvvisa necessità di valutare l’ipotesi di un’operazione separante e di un contratto televisivo per racimolare denaro. Attraverso la sua voce si delinea il versante emotivo di una vita a due gambe e quattro braccia, nella quale l’intimità e la dipendenza dall’altro diventano parte integrante di sé, nonostante i limiti che impone. Il racconto di due che sono uno e di uno che è due, in una dualità dinamica e sfuggente, procede come una poesia: forma che ne accentua il carattere intenso e coinvolgente.

Malgrado la vicenda scorra veloce e il tratteggio dei personaggi non risulti molto approfondito, One appare come un libro forte e di stacco, un libro che smuove qualcosa dentro il lettore costringendolo a chiedersi quanto potrebbe somigliare alle persone che circondano le protagoniste, con il loro carico di pregiudizi e crudeltà più o meno consapevoli, e a interrogarsi sulla sua reale capacità di comprendere e accettare una concezione della vita e dell’ identità probabilmente distante dalla propria.

La piccola aliena del pianeta 1p36

La storia della piccola aliena del pianeta 1p36 è, come dichiara la copertina del libro edito da Homeless Book, “una favola per siblings, genitori, educatori”: una narrazione intima in forma fiabesca che offre rispecchiamento e conforto a chi quotidianamente si confronta con le difficoltà implicate da un’anomalia cromosomica come quella della sindrome da delezione 1p36.

Nel racconto di Roberta Zoli, mamma coraggiosa e affettuosa di Francesca che è la protagonista del libri, molti dei sintomi che contraddistinguono la sindrome da cui è affetta la figlia vengono presentati come mostriciattoli dispettosi che rendono difficoltose anche le operazioni e le attività quotidiane più comuni. Dopo aver invaso il pianeta dove serenamente vivevano tutti i bimbi come Francesca, i mostriciattoli hanno seguito le malcapitate vittime anche nel loro trasloco sul pianeta Terra, complicando le loro funzioni cardiache, le loro abilità motorie di base, le loro percezioni sensoriali e le loro capacità cognitive. L’affetto dei familiari e l’operato dei dottori, che su questo nuovo pianeta abitano, però, offre a Francesca (e con lei a chi racconta e legge la storia) la fiducia di poter un giorno sconfiggere quelle bestiacce.

Senza pretese letterarie ma con una forte valenza umana e personale, La piccola aliena del pianeta 1p36 dà voce a un dolore e a una speranza che accomuna tanti bambini e soprattutto con disabilità, qualunque sia il pianeta da cui provengono.

Mediterraneo

È difficile, difficilissimo parlare di un libro come Mediterraneo. L’albo senza parole (fatto salvo per quelle strazianti che lo aprono “Dopo aver finito di annegare, / il suo corpo scivolava / lentamente / verso il fondo, lì dove i pesci lo aspettavano.”) di Armin Greder è infatti un concentrato densissimo di riflessioni e spunti su di un tema cocente come quello della migrazione, che pesa come un macigno sugli occhi e sulla mente di chi legge.

Tutto parte con l’immagine di un corpo morto annegato sul fondo del mare. È un’immagine forte come un pugno, che richiede determinazione e coraggio a voltare la pagina. Quel che ci attende subito dopo è un racconto che allarga progressivamente il campo visivo, muovendo dai pesci che di quel corpo si nutrono fino ad arrivare alle coste africane da cui probabilmente quel corpo è partito. E così, come in una sorta di viaggio a ritroso,  ci troviamo a seguire quei pesci sulla tavola di due individui, che loro volta seguiremo nei loro loschi traffici di armi, che a loro volta seguiremo mentre minacciano folle di persone impaurite all’inizio del loro incerto viaggio. Fino ad arrivare sul barone dapprima stipato fino a scoppiare di persone dai volti indefiniti e poi completamente svuotato e riverso in mezzo al mare. Da lì, il passo che ci riporta all’inizio della storia è brevissimo e indispensabile per chiudere e al contempo riaprire un cerchio e attivare un cortocircuito riflessivo che ci tiene dentro e non più fuori dalla storia.

Quei visi abbozzati e quasi deformati che caratterizzano lo stile di Greder sono forse l’aspetto più impattante del suo racconto per immagini, quello che ci invita a leggere e rileggere la storia da capo a fondo e da fondo a capo per esser certi di non confondersi e di non fraintendere, quello che ci dice quanto universali siano le storie di chi si imbarca verso un destino ignoto, quello che ci obbliga a ridefinire il senso di io e di loro.

Mediterraneo è un libro tanto scomodo quanto necessario. È un libro che parla a fondo di noi anche se la nostra faccia non compare nemmeno una volta sulle pagine, che guarda la tragedia dei morti in mare durante le traversate del Mediterraneo dal retro e non dalla facciata e che invita a riconsiderare un fenomeno così complesso come la migrazione rendendo conto della spirale di eventi che lo dota di moto perpetuo. In una parola, è un libro complesso e come tale merita di comparire tra le letture, soprattutto condivise ed echeggiate in gruppo (per esempio a scuola) di tutti i ragazzi dalle medie in su, capaci di assorbire le notizie che vengono dal mondo vicino e lontano ma spesso sprovvisti degli strumenti per elaborarle.

E forse proprio questa complessità, che di primo acchito tenderebbe a tenere il libro lontano dal mondo delle difficoltà di apprendimento e della disabilità  – così superficialmente destinate alla banalizzazione del mondo e della sua espressione – , dovrebbe in realtà renderlo appetibile e meritevole di essere preso in considerazione e proposto anche in queste situazioni. Perché la complessità – dei temi, del racconto e delle forme –è nutrimento prezioso e fonte di grande soddisfazione per quei lettori che fanno a volte a pugni con il testo pur essendo in possesso di piene facoltà cognitive. Ragazzi dislessici o sordi, per esempio, che tra le immagini si possono muovere con dimestichezza a differenza di quanto non fanno con le parole, sono lettori potenziali adattissimi di un libro potente ed evocativo come Mediterraneo.

Mallko e papà

Attendevamo la pubblicazione in italiano di Mallko e papà con grandissima trepidazione. Vincitore del Bologna Ragazzi Award for disabilities 2016, il libro di Gusti prometteva una possibilità straordinaria di incontro sorprendente con la disabilità. E la promessa è stata mantenuta: il libro, in cui l’autore argentino racconta la sua esperienza di papà di Mallko, bimbo con la sindrome di Down, è sconvolgente, nel senso più stretto del termine, perché crea scompiglio e smuove profondamente i sentimenti. Lo fa con la potenza di un racconto che non si prefigge quello scopo ma che nasce dal desiderio di esprimere e condividere un vissuto. Così, le dense pagine volume sembrano aprire le porte di una casa, accogliere dentro una quotidianità palpitante, mettere a parte di una storia fatta di gesti minimi e indispensabili. Costruito per frammenti, ricordi, riflessioni e appunti Mallko e papà è insolito e originale fin dalla forma: come un puzzle multiforme, il libro mette insieme schizzi, scritti, foto, vignette che offrono un ritratto insieme immediato e ponderato di una paternità diversa da quella che l’autore si era immaginato. Apparentemente scomposti, i pezzi che Gusti assembla delineano in realtà un filo narrativo ben preciso che porta dalla nascita di Mallko, con tutto il carico di domande e tormenti che questa reca con sé, alla sua serena e completa accettazione come un regalo speciale. “Accettare – conclude infatti l’autore – è ricevere volontariamente e con piacere quello che la vita ci offre”.

Lo attendevamo come un dono, Mallko e papà, e come un dono lo abbiamo pesato, sfogliato, letto, riletto e fatto sedimentare. Ci siamo lasciati tirare dentro fino al collo, commossi o sinceramente divertiti. Ma ci siamo anche soffermati sulla soglia di certe pagine, tanto intimo e personale era il loro contenuto. Ne siamo infine usciti colmi di pensieri e di gioia. Per questo sarebbe bello che la storia di Mallko e del suo papà potesse entrare in tante librerie e che potesse raggiungere tante mani, tanti occhi e tante orecchie: difficile dire in che modo, a quale età, con quali tempi, quel che è certo è che difficilmente un lettore ne resterebbe indifferente.

Crescendo

Finissimo esploratore del prima, quale luogo fecondo di attese e narrazioni, Alessandro Sanna torna a dedicarsi a questo tema così stimolante dopo l’apprezzatissima esperienza di Pinocchio prima di Pinocchio. Crescendo è infatti un silent book tutto dedicato ai nove mesi di una gravidanza: i nove mesi in cui tutto cresce – le aspettative, i sentimenti e senz’altro le forme. E proprio da queste ultime l’autore parte per costruire cinque piccole storie che si muovono al ritmo di una pancia che si arrotonda. Quella silhouette via via più marcata diventa infatti profilo di roccia, ali di gabbiano, corpo di cavallo e gambo di fiore in un’esplosione della natura colta in alcune delle sue molteplici forme. Man mano che la pancia cresce l’occhio dell’autore si allontana andando a cogliere uno scenario più ampio e facendo così avanzare il racconto: dalla roccia un uomo si tuffa ad esplorare le profondità marine, il gabbiano si alza in volo a caccia di cibo per i suoi piccoli, il cavallo galoppa lungo pendii vivacissimi e il fiore sboccia in un campo che abbaglia. Tutto inneggia insomma alla vita, in un inseguirsi di dettagli che si richiamano da una tavola all’altra fino a quella dolcissima immagine finale in cui la mamma stringe finalmente il suo bambino. A sottolineare questo crescendo di rotondità e di narrazioni, 18 intensi minuti di musica di Paolo Fresu che vale realmente la pena di ascoltare sfogliando le pagine poiché la tromba e gli acquerelli si intrecciano in maniera fitta e delicata, regalando al lettore una poetica nuova.

Non è un libro immediato questo , come molti d’altronde  firmati dal bravissimo Alessandro Sanna. Ma come spesso capita il valore della suggestione di un volume va di pari passo con la complessità del lavoro di appropriazione che al lettore viene chiesto. Così, quando si coglie il sottilissimo filo narrativo che lega i quadri apparentemente slegati, creando un motivo che ritorna mese dopo mese, la fantasia ha come un sussulto di gioia e delizia. È bello pensare che questo libro possa rivelarsi particolarmente affascinante, non solo per i grandi in attesa, ma anche per i bambini che aspettano un fratellino e che giorno dopo giorno vedono la pancia della mamma crescere e cambiar di forma. Sarà magico soprattutto per loro giocare a cogliere in quelle curve in evoluzione le sagome più disparate che raccontano piccole e grandi storie e che invitano a dare significati sempre nuovi alle linee care. L’assenza di parole agevola dal canto suo questo tipo di esperienza, favorendo possibilità di lettura e interpretazione personalissime anche da parte di lettori con difficoltà di decodifica del testo ma grandi abilità immaginative.

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In equilibrio perfetto

Capita alcune fortunate volte di incappare in libri forti come uno schiaffo e quando questo accade la lettura si fa valanga che travolge e non lascia indenni. Ecco, considerate che In equilibrio perfetto è esattamente uno di quei libri. L’autrice – Zita Dazzi – vi infonde tanta di quella vita, in tutte le sue sfumature, che si trattiene quasi il fiato leggendolo e vi si riemerge tonificati. Fin dalle primissime pagine si ha l’impressione di camminare accanto ad Amanda,tra le mura di casa dove la madre è stremata da un tumore, sul bordo di un guardrail dove le auto che sfrecciano portano via i pensieri più bui o tra i banchi di scuola dove voti insufficienti e delusioni amorose aggiungono insicurezza all’insicurezza già accumulata. Si, la vita di Amanda è un vero caos. I suoi capelli blu,i suoi modi menefreghisti e i suoi vestiti appariscenti vogliono in qualche modo denunciarlo ma sembrano non bastare, perché non è facile a 16 anni trovare il modo giusto per dire la sofferenza e le persone giuste per ascoltarla. Anche nel buio di un’adolescenza periferica, però, alcuni incontri possono rivelarsi salvifici: quello con una professoressa attenta all’umanità dei suoi studenti, per esempio, o con un amico del tutto inatteso. Zita Dazzi riprende passo a passo, con la bravura che le è propria, questo spaccato di vita autentico, indugiando con uno sguardo lucido e mai giudicante, tanto sulle ombre quanto sulle luci che si intrecciano dentro e fuori Amanda. Ci sono tanti temi forti, qui, vicini ai ragazzi in crescita: l’amore, l’amicizia, il lutto, la responsabilità, il confronto con i pari e il desiderio di essere accettati. Tutti trovano posto in una storia che scivola veloce e che tocca anche chi non ha sedici anni, una madre malata o un padre assente che fa il dj in India. Insomma, In equilibrio perfetto è davvero un libro da scoprire e come se non bastasse è pubblicato da Sinnos ad alta leggibilità: una ragione in più per proporlo ai giovani  lettori, certi che non verranno scoraggiati né dall’aspetto né dal contenuto

Il sole fra le dita

Testa calda, famiglia problematica e una certa propensione a infrangere le regole: questo è il ritratto di Dario. Almeno quello che tanti adulti dipingono concordi, guardando quel ragazzo tanto scontroso e strafottente. Una mela marcia, per dirla con due parole di cui la professoressa Delfrati fa un certo abuso. Mela marcia. Mela marcia. Mela marcia. A furia di sentirselo dire anche lo stesso Dario inizia a pensare di esserlo per davvero, e questo non aiuta certo a migliorare il suo atteggiamento. Così, all’ennesima insinuazione dell’insegnante – “Sei una mela marcia. Anche tuo padre lo sapeva. Per questo se n’è andato” -, il ragazzo sbotta e se ne va dalla classe sbattendo la porta. In questo modo si guadagna suo malgrado un periodo indeterminato di “assistenza volontaria ai portatori di handicap della scuola”, leggi: passare del tempo insieme a Andy, un ragazzo in carrozzina che fatica a parlare, mangiare, gestirsi in autonomia.

Per Dario è proprio quello che mancava per completare una vita rancorosa e insopportabile. Dopo i primi giorni di insofferenza – verso la punizione in sé in giusta e insensata, verso quel compagno forzato con cui non si può nemmeno parlare e soprattutto verso quella sua educatrice tutta moine e compassione – il ragazzo fa una bravata senza pensarci troppo: afferra la carrozzina di Andy e parte per il mare sulle tracce di quel padre che anni prima ha inspiegabilmente abbandonato lui e la madre. Quello che lo aspetta è un viaggio molto diverso da quello immaginato: un viaggio in cui fare i conti con un passato difficile da digerire, in cui scoprirsi amorevole e premuroso di fronte alla fragilità, in cui entrare senza mezze misure nel quotidiano di un coetaneo così diverso da lui  benché ugualmente solo.

L’incontro con Andy finisce quindi per aprire squarci inattesi di crescita, pensiero e scoperta per il giovane Dario, trasformando la punizione in un’autentica occasione di riscatto. Un riscatto bilaterale, a dire la verità: perché se Dario trova in Andy la chiave per guardarsi dentro e ricalibrare la sua vita, è altrettanto vero che Andy trova in Dario chi sa vedere in lui la persona prima del disabile. E se entrambi trovano nel compagno un amico inaspettato non è per buonismo o political correctness ma per effetto diretto della condivisione di attimi, avventure, divertimenti e difficoltà.

Il sole fra le dita è una lettura estiva per data di pubblicazione e atmosfere dipinte (fin dal titolo) ma meritevole di abitare scaffali, comodini, classi e divani per quattro intere stagioni all’anno. Scorrevole e ricco, il romanzo di Gabriele Clima sa parlare di ragazzi e ai ragazzi con la schiettezza e la sensibilità di chi non ha paura di frequentarli e conoscerli davvero.  Con lo stesso spirito l’autore offre inoltre una lettura rara della disabilità in cui la difficoltà non cancella necessariamente la possibilità e in cui la vita necessita di reali sfide a migliorarsi e obiettivi da raggiungere per potersi dire tale. In cosa consistano tali sfide e obiettivi in un caso come quello di Andy, spetta spesso capirlo agli assistenti e ai genitori, il cui ruolo di  educatori, per il quale competenze e qualità umane non possono che abbracciarsi, è qui reso in tutta la sua importante delicatezza.

Pinocchio prima di Pinocchio

Ci sono storie senza tempo che riecheggiano nelle orecchie e nella mente di tutti noi in forme, immagini e particolari diversi: storie che popolano l’immaginario comune e tornano a galla nelle circostanze più disparate. Ecco, Pinocchio è senz’altro una di quelle e la sua forza è tale che bastano pochi ben scelti dettagli per evocare episodi trasversalmente noti e simboli radicalmente sedimentati. Per averne una forte e travolgente prova sarà sufficiente immergersi nel corposo volume firmato da Alessandro Sanna e intitolato Pinocchio prima di Pinocchio.

Due sole frasi animano il libro che per il resto procede essenzialmente senza parole e che pertanto come un vero e proprio silent book può essere considerato. Poste in apertura e in chiusura, le due frasi segnano la continuità e la rottura con la storia di Collodi. In prima battuta vi è il richiamo al celeberrimo “C’era una volta… Un re! diranno subito i miei piccoli lettori” e l’immediato cambio di prospettiva che pone il lettore su di una nuova via interpretativa. “C’era una volta un pezzo di legno, direte voi lettori. Invece no! C’era una volta l’universo.” – dice Sanna – indicando chiaramente l’intenzione di esplorare il “prima”. Da qui in poi la narrazione avanza per sole immagini e più nel dettaglio per piccoli riquadri che lasciano periodicamente spazio ad un’apertura cromatica a tutta pagina.

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Ciò che accade è che da una sorta di esplosione iniziale prende vita un albero che cresce e si irrobustisce attraverso stagioni più o meno avverse. Poi, d’improvviso, un fulmine stacca di netto un ramo: non un ramo qualsiasi, bensì un ramo dalle stilizzate fattezze umane, composte di un tronco e quattro esili arti. Non è dunque un ramo, a ben vedere, quel che cade dalla pianta ma piuttosto un personaggio fatto e finito pur nella sua forma schematica. Come in ogni fiaba che si rispetti si prospetta subito una partenza per il protagonista che sulle sue gambe secche secche  si avvia a perdifiato per il mondo. C’è tutta la spensieratezza giovanile nelle prime falcate e capovolte del legnetto, fino all’incontro con un gatto e una volpe di nota memoria. E’ con loro che il protagonista si incammina fino all’imbocco di una foresta scura che è anche l’ingresso nell’ignoto, nell’oscuro, probabilmente nel proibito. Il clima si fa qui via via più cupo, l’ambiente più ristretto, le vie di fuga meno palesi. Una manciata di altri omini di legno si calano silenziosamente dagli alberi e circondano il nostro eroe  in un girotondo tutt’altro che rassicurante: l’atmosfera si scalda fino a prendere letteralmente fuoco.  Un Pinocchio in fiamme fugge davanti a un’ombra tanto familiare al lettore quale quella del burattinaio mangiafuoco. Fugge allora a più non posso, attraverso pianure e colline, salite e distese d’acqua, in pancia a un serpente, in groppa a un uccello, in bocca a un pescecane, fino a ritrovarsi in una cornice dai dettagli primaverili che lo avvolge e trasforma. Conquistando un corredo sempre più rigoglioso di foglie e verzura tra le cui ombre si stagliano richiami di gatti, civette, volpi e burattini, l’albero è a questo punto compiuto. E come lui anche la storia. Almeno quella che c’è prima ma che mostra di contenere già anche i semi della storia che verrà dopo. Quest’ultima, a tutti noi nota del burattino collodiano, può quindi ora cominciare: il cerchio si chiude, e la fine diventa inizio.

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Come già sperimentato in Fiume lento, Sanna si prende il tempo necessario a dipanare una narrazione millenaria e chiede al lettore di fare lo stesso. Il patto è chiaro: chi ha fretta non troverà qui molto pane per i suoi denti. La magia di questo lavoro sta infatti nelle impercettibili sfumature che avvicinano e insieme distinguono i singoli quadri, trovando un senso solo nel consecutivo accostamento delle scene. Tra le pagine di questo meraviglioso libro è tutto un gioco di dettagli che mutano, di sfumature che vibrano, di tinte che si animano: è nel complesso che il particolare trova valore, come in un quadro la cui comprensione richieda distanza e prospettiva. Serve insomma una visione d’insieme per restituire il giusto ruolo ad ogni tassello e il giusto senso ad ogni segno. L’essenzialità del tratto accompagna e accoglie qui infatti una sovrabbondanza di echi e significati e questo fa sì che le possibilità esplorative del volume siano molteplici e coinvolgano lettori di età ed esperienza diversa. anche e soprattutto non giovanissimi.

Dall’albo, edito da Orecchio acerbo è nato uno spettacolo teatrale che vede protagonista lo stesso autore Alessandro Sanna impegnato in una sessione di disegno dal vivo accompagnato da un contrabbasso e un cantante jazz: un esperimento originale e insolito che tanto dice sulle possibilità creative e creatrici che opere di altissimo livello artistico recano con sé.

Contro i cattivi funziona

Avere 13 anni è già di per sé piuttosto impegnativo: scuola, amicizie, cambiamenti, prime cotte e contrasti con i genitori (magari separati) danno un bel da fare a chiunque. Se poi ad aggiungersi c’è anche un fratello gravemente disabile mantenersi in piedi può diventare un’impresa per via delle prese in giro, degli atti di bullismo, degli sguardi compassionevoli o dei giudizi sprezzanti che affollano il quotidiano. Tutte cose molto familiari a Matteo Galbiati, la cui identità fatica a sganciarsi da quella del fratello Guido: 14 anni anagrafici e uno e mezzo celebrale, con gravi difficoltà comunicative e motorie.

Per questo la possibilità di cambiare scuola e ripartire da zero – quanto a conoscenze e reputazione – costituisce per il protagonista di Contro i cattivi funziona un’occasione imperdibile. Matteo decide di presentarsi ai nuovi compagni nascondendo a tutti l’esistenza del fratello. La cosa sembra funzionare, dal momento che il ragazzo riesce a entrare nelle grazie di Francesco, il più temuto e rispettato della scuola, e della sua banda di scagnozzi. Ma tenere in piedi una bugia tanto grossa si fa via via più difficile, soprattutto quando Guido inizia a frequentare la stessa scuola di Matteo, quando l’affettuosa vicina di casa Selene scopre la vita reale della famiglia Galbiati e prova piano piano a entrarvi e quando la banda di Francesco comincia a manifestare, con parole ma anche con i fatti, la propria avversione verso i più deboli e verso chi, avario titolo, li difende. Sarà dura per Matteo fare i conti con una situazione che rapidamente precipita e scoprirsi di colpo migliore di quanto non si mostrasse e più attaccato al fratello di quanto non credesse.

Attraverso una trama coinvolgente e dei dialoghi serrati, che guardano all’adolescenza con occhi disincantanti, Massimo Canuti offre un bel ritratto di un legame fraterno quanto mai complesso e travagliato. Dando voce ai siblings, ossia ai fratelli di persone con disabilità, l’autore sceglie di non abbandonarsi alla neutralità politically correct che spesso invade i libri sul tema per far emergere piuttosto il magma emotivo che spesso travolge chi vive una situazione di questo tipo, in bilico tra un affetto smisurato e un’insofferenza che porta a rimorchio il senso di colpa. La schiettezza, al servizio della complessità, è dunque la vera forza di un volume coraggioso come questo.

 

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Io no!… o forse sì

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Scovare ottimi scrittori americani e portane i titoli in Italia: imbarcata da qualche tempo in questa intrigante impresa, la casa editrice Biancoenero infila instancabile una chicca editoriale dietro l’altra. Dopo Thomas Rockwell (Come mangiare vermi fritti e Come diventare favolosamente ricchi) è ora il turno di David Larochelle, autore del bellissimo Io no! …o forse sì: il ritratto palpitante e sorridente di un’adolescenza tormentata e di una sessualità in via di definizione.

Insignito di numerosissimi premi, il libro racconta del sedicenne Steven e del percorso che compie per arrivare a capire prima, accettare poi e condividere infine la sua identità omosessuale. Al suo fianco, l’originale e tenace Rachel, amica fidata e leale che lo aiuta a riconoscere e incoraggia a prender coscienza della realtà che tanto lo intimorisce. Intorno a lui, poi, c’è una sfilza di personaggi più o meno marcati che caricano e spingono la sua altalena emotiva: i genitori che prima negano l’evidenza ma poi, timidamente, sorprendono, il professor Bowman che legge International Male ma che ride alle battute omofobe, il carosello di ragazze che Steven frequenta nel tentativo di attivare la sua mascolinità e la squadra di hockey della scuola con i suoi fusti che nascondono, a loro volta, dei segreti. Su questo sfondo, Steven cerca una propria dimensione in quel calderone di emozioni alla rinfusa che è l’adolescenza. Andando a caccia di qualche appiglio – amici, familiari o professori – che gli possa offrire un sostegno, una pista, un confronto, una rassicurazione, il protagonista ne fa di ogni sorta (dal rifornirsi di obsoleti saggi sull’educazione sessuale dei figli all’andare al ballo studentesco con un cane invece che con una dama) prima di arrivare a conoscersi e farsi conoscere davvero. Il suo è un racconto estremamente ironico e insieme puntuale: un reportage “interiore” fedele e personale, credibile e appassionato, emozionate e divertente, di un periodo della vita che è già un garbuglio di per sé e che si intrica ancor di più se un orientamento sessuale ci si mette di mezzo. Il libro di Larochelle è insomma un’occasione preziosa e tutt’altro che sprecata per raccontare una storia viva e coinvolgente, che tocca sul vivo gli animi adolescenti (e non solo) di qualunque orientamento sessuale e accende fari importanti su tematiche di scottante attualità (è vero, il libro è uscito in America 10 anni fa ma il nostro paese, così arrancante in fatto di diritti civili, ha bisogno di un po’ di tempo per mettersi in pari…).

Destinato ad un pubblico più maturo rispetto al solito, Io no! …o forse sì! non rinuncia ai criteri di alta leggibilità che contraddistinguono il catalogo e il credo della casa editrice romana. Sbandieratura a destra, carta opaca e color crema, interlinea maggiore e font specifico (biancoenero) per dislessia non mancano infatti, benché la dimensione del carattere sia più piccola, in linea con gli standard di pubblicazione per ragazzi ormai cresciuti. Sarà interessante, a questo proprio, registrare i feedback, in termini di leggibilità, dei diretti interessati. Quel che è certo è che se un giovane lettore, magari dislessico, si cimenta con un volume così corposo e con un testo così minuto, è perché ha imparato a non temere sfide di lettura crescenti e ha trovato, forse, in precedenza in volumi più semplici ad alta leggibilità, i supporti indispensabili per consolidare le proprie abilità e passioni di lettura.

Fiume lento. Un viaggio lungo il Po

Ci vuole tempo per leggere Fiume lento. Ci vuole tempo non solo perché le pagine sono molte, trattandosi di un libro senza parole, ma anche perché il ritmo della storia e il pacato dettaglio delle illustrazioni lo richiedono fermamente. Nel dedicarsi con amore e con pazienza al quieto scorrere del fiume della bassa – quello che regala fertilità ma si scatena talvolta con rabbia cieca, quello che abbraccia la vita ripetitiva di campagna e osserva di tanto in tanto eventi eccezionali – Alessandro Sanna regala a un lettore dall’età indefinita una narrazione preziosa e appassionata.

Come suggerisce il titolo, il fiume sta al centro della pagina e del racconto, insieme ai paesaggi, agli abitanti, ai riti e agli avvenimenti che su quegli argini si muovono, si agitano e prendono vita. Così, attraverso quattro capitoli per altrettante stagioni, l’autore sceglie di mostrarci la quotidianità e l’eccezionalità di un mondo che ha un sapore dolce-amaro, sicuramente antico, atavico, profondo. Ci mette dentro l’alluvione in un autunno drammatico e umano, la nascita di un vitellino nel gelo invernale, un amore primaverile ai tempi delle sagre e l’incontro estivo tra Ligabue e la tigre: quattro episodi insieme legati e a sé stanti, particolari e universali, distaccati e profondamente vissuti. In un fitto susseguirsi di citazioni, di richiami di omaggi – che spaziano dalla pittura al cinema, dalla poesia alla storia – siamo dunque invitati a indugiare ma non ad arrestarci, lungo un libro che dura cento pagine, un anno, una vita.

Ricorrendo a una struttura solida e stabile – una illustrazione iniziale a tutta pagina e quattro strisce rettangolari per ciascuna delle pagine seguenti – Alessandro Sanna propone un viaggio dal ritmo ben scandito, sempre identico all’apparenza ma modulato all’interno da una profusione di dettagli, di toni variati, di sfumature, di zoom più o meno marcati che fanno progredire le stagioni e insieme accolgono i sentimenti suscitati dagli eventi. Ne beneficiano gli amanti di storie che non mettono fretta, di libri che richiedono un’immersione silenziosa e di illustrazioni che esplorano il colore in tutte le sue possibilità. Tra questi, senz’altro, anche quei lettori, magari già grandicelli, le cui difficoltà di decodifica del testo non precludono possibilità immaginative e riflessive ampie e raffinate.

Io e mio fratello

Nel bel libro di Isabel-Clara Simò, scrittrice catalana pluripremiata, ci sono prima di tutto un fratello adulto con la sindrome di Down e una sorella dodicenne che se ne prende cura. Il resto della famiglia – padre militare e madre mondana – sono fisicamente presenti ma a tutti gli effetti piuttosto assenti dalla vita dei due figli. Per chi ha letto Mio fratello Simple di Marie-Aude Murail, questo quadro risulta a tratti familiare e noto, ma Io e mio fratello rivendica una personalissima originalità adottando il punto di vista di Mercé (la piccola di casa che si improvvisa grande), raccontando in maniera più intima il trauma di un handicap in famiglia e riprendendo, senza sconti linguistici o narrativi, una quotidianità piuttosto travagliata.

Nelle 122 intense pagine del romanzo, la protagonista Mercé rende conto dei suoi pomeriggi al contempo abitudinari e spiazzanti in compagnia del fratello Paul, della sua passione per il teatro, del suo senso di inadeguatezza nei confronti della migliore amica e della sua frustrazione nel farsi carico di una situazione familiare insolita e tutt’altro che banale. Poi, quando meno te lo aspetti, trama e routine subiscono un’inattesa svolta: Paul si innamora di Maria, la figlia della domestica di casa, anch’essa affetta dalla  sindrome di down.  A quel punto i contrasti familiari si inaspriscono, le questioni legali e burocratiche fanno capolino (rallentando, in effetti, un po’ il ritmo narrativo) e la realtà viene a chiedere di pagare il conto. E lo fa nella maniera più brusca possibile, non solo nei confronti dei personaggi ma anche del lettore che, dopo aver sorriso a lungo di fronte all’ingenuità brillante di Paul e alla schiettezza pungente di Mercé, si trova incredulo a scorrere un’ultima e disorientante pagina.

Forte di uno stile incalzante e verace, Io e mio fratello ritrae efficacemente la complessità emotiva e psichica che contraddistingue i giovani con sindrome di Down e che troppo spesso viene trascurata in nome di uno stereotipo di costante e inscalfibile contentezza.  Allo stesso tempo, l’autrice fa emergere prepotentemente i tormenti interiori di chi di giovani come Paul si prende cura, giorno dopo giorno. In quel suo imprecare e ricordare di frequente che ha “soltanto dodici anni”, Mercé sottolinea la sua difficoltà di vivere una maturità che la sua età non richiederebbe e che ciononostante, per necessità, si sforza di mettere in campo. I suoi sentimento contrastanti affiorano vulcanicamente nelle piccole e grandi sfide quotidiane che vanno dal seguire il fratello Paul al posto di fare i compito al gestirne l’emotività durante l’inatteso innamoramento. Dalle sue parole trasudano un affetto smisurato e un fastidio che mai si dissocia dal senso di colpa. Le sue giornate sono costellate di rimuginazioni, sbuffi, atti di dedizione e pazienza e sacrifici. “Un conto è volergli bene – afferma a un certo punto, lucidamente, la ragazzina – un altro sono queste rinunce che, oltretutto, nessuno apprezza perché nessuno nota”. La richiesta di attenzione, supporto e riconoscimento non potrebbe essere più esplicita e contribuisce a fare di Mercé, oltre che di Paul, un personaggio straordinariamente incisivo e difficile da dimenticare.

Migrando

Migrando è un dei libri senza parole più complessi ed evocativi finora pubblicati in Italia. Proposto non a caso da una casa editrice raffinata come Orecchio Acerbo, il volume richiama l’attenzione di un pubblico che ha già una buona dimestichezza con le decodifica delle immagini e che sa apprezzare la suggestione più sfuggente in luogo della rappresentazione più netta. Il libro creato da Mariana Chiesa Mateos è insomma, in tutto e per tutto un libro controcorrente: perché sperimenta con forza e successo la forma dell’albo illustrato per un pubblico di lettori esperti, perché accetta la sfida di trattare un tema di scottante attualità e infine perché segue le direzioni dei movimenti migratori, nel loro andar contro certezze, affetti e radici.

A sottolineare questo aspetto, il fatto che il libro non abbia un verso privilegiato ma si legga in parte in un senso e in parte capovolto, come a tradurre in un espediente grafico e narrativo l’idea che ruoli e traiettorie di migrazione non siano mai fissi. Così, chi sessant’anni fa partiva ora accoglie e chi ora parte forse domani accoglierà. E se da un lato dell’albo troviamo figure che riportano alla mente la Lampedusa più drammatica degli ultimi mesi, dall’altro riconosciamo nonni e bisnonni del secolo scorso con le valigie colme di speranza. A far da cornice comune c’è una natura dal forte valore simbolico: l’acqua che, a seconda dei punti di vista,  separa e unisce paesi, ma anche gli alberi e gli uccelli, gli uni dalle radici profonde e gli altri dalla vita volubile.

Il libro si presta ad una lettura molteplice, che sveli di volta in volta dettagli e possibilità interpretative nuove. L’assenza di parole e la scelta di fili narrativi e scenari labili lasciano infatti ampi margini al contributo di ciascun lettore, stimolando emozioni prima che riflessioni.

L’amico immaginario

“Max non ha un fuori, Max è tutto dentro”.
Così Budo, cinque anni di età e fattezze inventate, descrive con una puntualità disarmante il bambino che lo ha creato e scelto come amico immaginario. Max è infatti l’unico essere umano che riesce a vederlo poiché è proprio colui che gli ha dato una forma per non sentirsi solo nei momenti difficili, per non avere paura quando le cose funzionano un po’ diversamente dal solito e per avere qualcuno che lo capisca senza dover necessariamente parlare o esternare ciò che sente. L’avversione di Max per qualsivoglia cambiamento, la sua difficoltà a fare delle scelte, l’insofferenza nei confronti di qualunque contatto fisico lascia pensare che sia un bambino autistico ma a Budo questo non interessa e poiché il romanzo segue la sua voce, viene prediletta una descrizione per fatti, più che per etichette, del protagonista e delle sue avventure.

E che avventure! Un giorno come tanti Max viene caricato di nascosto in macchina dalla Patterson, la sua maestra di sostegno tutt’altro che equilibrata, e da lì sparisce. Rapito. Starà a Budo, il solo ad aver assistito alla scena, trovare il modo di scovare Max e aiutarlo a liberarsi, destreggiandosi tra la complessità del caso, le ossessioni del bambino e il suo personale status di individuo invisibile ai più. Per fortuna, a differenza di molti altri amici immaginare che lo stesso Budo incontrerà sul suo cammino, Max lo ha creato con molta cura, dotandolo di una fisionomia pressoché completa, di uno spirito di sacrificio invidiabile e soprattutto di una capacità di osservazione molto acuta. Così, per il lettore, che già non stenterà a farsi catturare dalla trama, la cronaca in tempo reale firmata da Budo rappresenterà una chicca tutto da gustare. La scelta originale di far raccontare la storia dal punto di vista insolito di un amico immaginario offre infatti l’occasione di guardare al mondo con un’attenzione ai particolari spesso trascurata e di confrontarsi con riflessioni di spessore trattate argutamente con una sensibilità spiccia.

Cico e Pippo

Cico e Pippo sono due personaggi anni ’70 creati da Altan e rispolverati oggi da Gallucci in una raccolta essenziale e dilettevole. I protagonisti, padre e figlio, non sono che due linee sottili – l’una più grande e l’altra più piccina – che fanno del loro tratto appena abbozzato la chiave della loro moderna critica sociale.  Messi a confronto sulla pagina nuda, senza nemmeno la traccia di un riquadro o di una cornice, calpestano con disinvoltura i luoghi comuni sull’handicap, di cui Cico, cieco, è degno rappresentante. Dissacrante e irriverente, Pippo non risparmia, infatti, battute ciniche e scherzi irriguardosi nei confronti del papà, tendendogli trappole fisiche e verbali sui terreni minati del piacere, dello sport, dell’arte e delle relazioni.

La reazione di chi legge cede quasi certamente a un timido sconcerto, in prima battuta. Come porsi, d’altronde, di fronte a un personaggio che si dice triste per dover sempre condurre un papà cieco e che poi, a posizioni invertite, porta il genitore a sbatter contro un tronco? Un secco “mah..”, un po’ stizzito e straniato, è certo una buona sintesi dell’impatto inatteso con le vignette. È solo dopo, con sguardo acuto e disincantato, che le strisce crude e persin crudeli suggeriscono tutto un altro senso. Dipingendo efficacemente l’assillo e il tormento incarnato da Cico – non di rado pedante e insistente -, l’autore restituisce alla cecità (e più in generale alla disabilità) il diritto di essere, nel bene e nel male, umana e come tale di esser trattata. In barba ai favoritismi ispirati al politically corretc, un sorriso malizioso lancia un messaggio ambizioso. Perfetto stile Altan, insomma.

Muoio dalla voglia di conoscerti

Due personaggi agli antipodi: uno vecchio e l’altro giovane, uno dedito alla scrittura e l’altro dislessico, uno amante delle parole e l’altro cultore del fare. Eppure l’incontro tra Karl e l’anziano narratore di Muoio dalla voglia di conoscerti genera un’amicizia intensa, nutrita di profondi confronti sul senso dell’amore, della vita, del lavoro, e capace di stravolgere quello che doveva essere un ritrovo del tutto occasione e utilitaristico tra i due.

Rivoltosi allo scrittore per stendere delle lettere alla fidanzata Fiorella, amante della parola messa su carta, Karl finisce per scoprire nel suo interlocutore un’inattesa e rassicurante mescolanza tra una figura paterna troppo presto smarrita, un maestro di vita capace di coglierne potenzialità e debolezze e un amico sincero dalle molte qualità condivise. Al suo fianco si troverà, dunque, ad affrontare i primi amori felici e drammatici, il dolore mai superato per la morte del padre, il rapporto tormentato con la parola scritta e un’indole taciturna e tutta orientata alla manualità.

Quanto alla dislessia, essa trova tra queste pagine un ritratto interessante e poco usuale. Assunta a causa scatenante del racconto, viene poi esplorata con cura garbata ma senza assillo, mescolandosi in maniera realistica ad esperienze emotive molto forti e trovando il più forte dei riscatti in un personaggio che sa superare le proprie difficoltà con la scrittura esplorando nuove strade e forme alternative di espressione. L’autore, dal canto suo, mantiene salda la capacità di scavare in profondità temi forti come questo, senza trascurare una buona dose di coinvolgimento e illuminazione folgoranti che rendono lo scritto particolarmente attraente nei confronti dei lettori adolescenti.

Ben X

Un libro per ragazzi accorti e smaliziati che con un linguaggio schietto e diretto sa portare adulti e adolescenti nella realtà tanto distante e spesso incomprensibile della sindrome di Asperger: quella da cui è affetto Ben, protagonista forte di questo volume (e del film che a esso è legato), campione di videogames e apparente sconfitto della vita vera. In quest’ultima, Ben fatica infatti a farsi spazio e a trovare il suo posto. Chiuso in un mondo difficile da penetrare e marchiato per quegli atteggiamenti così strani, quasi borderline, il ragazzo diventa vittima di bullismo, accentuando la sua autoesclusione da tutto ciò che lo circonda.

Così Ben non vive, ma si allena semplicemente a farlo. In maniera virtuale, attraverso il videogioco Archlord o la chat in cui si fa chiamare Zorro: due strumenti o due realtà parallele in cui nessuno può farsi beffe di lui né chiedergli conto della sua differenza. Poco a poco queste diventano il suo unico flebile contatto con l’esterno, l’unico spiraglio e valvola di sfogo di un’oppressione che non si vede e non si tocca. Fino alla svolta, al colpo di scena, narrativamente ed esistenzialmente parlando: portato a ingoiare una pastiglia di ecstasy, Ben fa sfiorare a chi gli sta intorno la fredda sensazione della morte e per una volta, forte della sua esperienza virtuale, trova un modo di riscattarsi e uscire allo scoperto.

Ben X è un libro forte e d’impatto. A volte stride, urta, colpisce per il modo non edulcorato con cui parla ai ragazzi e dei ragazzi. Ma c’è qualcosa che sa di verità, qui dentro, al di là degli schermi e delle barriere che a volte ci dividono dalla vita reale.

I colori del buio

Gli adolescenti sono i destinatari principali de I colori del buio. Vale tuttavia la pena di segnalare questo libro per il suo valore letterario e per la delicata serietà con cui affronta temi importanti. Questi tratti, che gli hanno valso il National Book Award 2010, lo rendono infatti interessante anche agli occhi di lettori e lettrici di età diversa, purché aperti a un confronto disincantato con la realtà.

La protagonista del libro, Caitlin, è in particolare affetta da sindrome di Asperger, descritta senza camuffaggi. Tutto ciò che non ha un contorno netto – dagli individui alle espressioni metaforiche – assume per lei un volto inquietante e minaccioso: così essa non si stanca di consumare il dizionario e i suoi termini esatti, di disegnare rigorosamente in bianco e nero e di attenersi ad un logica ferrea che spesso si scontra con il pensiero comune.

Il suo è un percorso a ostacoli, segnato da paletti fissi e sofferenze inattese come la morte del fratello Devon, tra le quali si trova a zigzagare alla ricerca di un posto nel mondo, e di una conciliazione con sé stessa e con gli altri. Il lettore, silenziosamente, finisce per far suo questo tortuoso tragitto, accogliendo quelle emozioni chiare e scure che ne segnano marcatamente il tracciato.

Mio fratello Simple

Straordinario, toccante, divertente. Questo è Mio fratello Simple, il libro di Marie-Aude Murail la cui forza originale si poggia senza dubbio sull’ironia pungente e sul realismo mai patetico dei sentimenti. L’autrice francese, infatti, delinea, colora ed anima con efficacia disarmante il mondo di Simple, ritardato mentale, e di tutti coloro che per qualche ragione gli ruotano intorno: il fratello minore e minorenne che se ne prende cura, i loro coinquilini, il burbero vicino di casa, il padre assente o chi soltanto ne sfiora di passaggio l’esistenza senza poterne restare del tutto indenne.

Perché Simple – semplice – è tale soltanto nel suo soprannome, nella logica ferrea che regge i suoi pensieri, nei sentimenti nettamente neri o bianchi che agitano il suo didentro. Ma il suo essere insolito, imprevedibile, idiota e geniale al contempo, rendono piuttosto complicata la realtà vera o immaginaria in cui si immerge tirando con forza dietro di sé lettori e personaggi corollari. È una realtà in cui il coniglio di pezza Migliotiglio esprime osservazioni ed emozioni destinate altrimenti a restare soffocate, in cui telefoni e tecnologie funzionano grazie ad omini invisibili, in cui le principesse baciano solo il loro principe e in cui basta a volte una stopila giocattolo in tasca per sentirsi più sicuri. Ma è soprattutto una realtà che, raccontata con le parole schiette e originali dell’autrice, non sa lasciare indifferenti, spalancando agli occhi di chi legge un mondo tanto vero quanto difficile ad immaginare.