Disabilità e sport ad alti livelli. Elisabetta Mijno e Marco Dolfin
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Pubblichiamo la seconda e la terza di tre interviste ad atleti paralimpici, che coniugano lo sport ad altissimi livelli con lavoro, relazioni affettive, disabilità.
Le interviste si sono svolte nell’ambito della giornata internazionale della disabilità, in cui presso il Liceo Juvarra di Venaria Reale (TO), gli studenti hanno potuto conoscere questi atleti, confrontarsi con loro su diversi temi, vivere una giornata di sport e vita.
Elisabetta Mijno, nata nel 1986, è atleta paralimpica e medico chirurgo specializzanda in chirurgia ortopedica.
Marco Dolfin, classe 1981, chirurgo ortopedico, è un nuotatore della Nazionale paralimpica, detentore in vasca di numerosi record; ha partecipato alle Olimpiadi di Rio 2016. E’ sposato e padre di due gemelli.
Ciao Elisabetta. Come ti sei avvicinata allo sport?
Prima dell’incidente ho praticato vari sport a livello amatoriale: sci, judo e danza (mia madre aveva provato a farmi fare un’attività sportiva femminile), equitazione.
Da quanto tempo ti trovi in carrozzina?
Da quando avevo 5 anni, per un incidente automobilistico.
E come ti sei avviata allo sport agonistico?
Ho iniziato tiro con l’arco per curiosità, invitata a provare a da una vicina di casa, dopo essermi accostata a diversi altri sport. Lo sport ha sempre fatto parte della mia vita; l’agonismo è stato un passaggio naturale.
Marco, prima dell’incidente praticavi sport?
Prima dell’incidente, avvenuto a 30 anni, nel 2011, giocavo a Hitball. Precedentemente avevo in ogni caso sempre praticato sport, fra cui anche il nuoto.
Come mai dopo l’incidente ti sei avvicinato allo sport agonistico?
Se Hitball, che è scarsamente conosciuto ed è diffuso prevalentemente a Torino, avesse avuto un circuito agonistico, mi ci sarei certamente cimentato. Dopo l’incidente, in unità spinale ho avuto la possibilità di provare alcuni sport, a partire dal tennis tavolo (ping pong); dalle dimissioni in poi mi sono riavvicinato al nuoto, che già avevo praticato durante l’infanzia. Poiché ho sempre puntato in alto, il passaggio alla carriera agonistica per me è stato naturale.
Elisabetta, i tuoi genitori ti hanno sempre supportata?
Sì, hanno capito che per me e mia sorella lo sport era molto importante ed erano loro stessi a spingermi a praticarlo; forse ne coglievano l’aspetto di socialità, anche perché a quell’epoca non c’erano contesti sportivi riservati alle persone con disabilità, come ora, per cui lo sport era molto più inclusivo sul piano delle relazioni.
La mia grossa fortuna forse è stata quella di fare cose non per disabili: le palestre non erano accessibili, quindi ho dovuto imparare subito ad essere autonoma anche in condizioni sfavorevoli, ad aguzzare l’ingegno per adattarmi. Inoltre gli allenatori non erano specializzati sule disabilità, per cui anche loro hanno imparato a rapportarsi con il mio fisico.
Marco, chi ti ha supportato di più?
L’incidente è avvenuto in un momento particolare della mia vita: avevo appena iniziato a lavorare e mi ero sposato da un mese e mezzo. E’ stato fondamentale affrontare tutte le difficoltà insieme a mia moglie Samanta. Nei miei momenti grigi c’era lei a spingere, nei momenti di tristezza sua c’ero io.
Secondo voi i genitori quanto si devono fare carico per permettere a un bambino con disabilità di praticare sport? Ci sono sicuramente più difficoltà logistiche, un carico psicologico maggiore, ecc.
E. Più noi persone con disabilità facciamo le cose come le fanno gli altri, meglio è. Come sportiva vedo genitori che stanno addosso al figlio in modo imbarazzante… gli montano e smontano l’arco. Credo che sia normale che un genitore, vedendo un figlio già in difficoltà e voglia togliergliene qualcuna, ma penso sia controproducente. Alcuni genitori seguono i figli nei raduni nazionali. Per alcune funzioni fisiologiche è importante, ma tolte queste, i ragazzi devono imparare a cavarsela da soli.
M. Un comportamento protettivo è certamente comprensibile, ma in realtà il risultato è una diminuzione nella capacità di autonomizzarsi, di farcela da soli, cosa di cui avranno certamente prima o poi bisogno.
Elisabetta, perché lo sport è così importante secondo te?
E’ certo importante imparare a saper chiedere aiuto, ma scoprire che ce la si può fare da soli in un contesto aiuta ad avere più fiducia in se stessi anche in contesti diversi, per esempio nell’avere rapporti interpersonali normali, avere un fidanzato o una fidanzata.
Finché non sei in grado di gestirti da solo può prevalere il dubbio di non farcela.
Lo sport aiuta in generale, ma per un bambino in carrozzina incontrare un altro bambino con le stesse difficoltà che ce la fa, lo aiuta moltissimo a non disperarsi, a capire che se ci riesce l’altro può farcela anche lui.
In ospedale sono l’atleta, per i miei compagni della nazionale sportiva sono il medico. Devo dire che a volte io stessa mi dimentico della mia disabilità: può capitare che prenoti presso una struttura e una volta arrivata magari trovi delle barriere architettoniche, perché al momento della prenotazione non ho pensato di precisare che sono in carrozzina.
Marco, secondo te praticare un’attività sportiva per un bambino con disabilità lo apre verso le relazioni esterne?
Certamente, lo sport a tutti i livelli, e al di là della disabilità, apre verso le relazioni. Nella mia esperienza è stato fondamentale e lo sarà per molto.
Quanto conta a livello di identità praticare uno sport?
E. La carrozzina c’è ed è inutile negarlo, ma avere un lavoro, praticare uno sport, avere una famiglia, sono tutti tasselli importanti di uno stesso puzzle, che ci permette di proporci prima come persone e poi come persone-in-carrozzina.
M. Essere uno sportivo o riconoscersi in un lavoro sicuramente aiuta a proporsi come individuo e non come “disabile”.
Per un genitore questo rappresenta un messaggio importante: smettere di vedere la carrozzina come il Problema che impedisce di vivere una propria vita. Tolta la carrozzina, tutto si risolve.
M. Si, ma il traguardo di costruirsi come individuo si raggiunge più facilmente se i genitori non sono troppo pressanti. Lo sport anche in questo aiuta molto, figli e genitori, ad avere fiducia nelle capacità del bambino o ragazzo in carrozzina di percorrere la propria strada.
Area onlus ringrazia Elisabetta Mijno e Marco Dolfin
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