Disabilità e narrazioni
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Dalla teoria ai dispositivi terapeutici
A cura di Rossella Bo e Alberto Sacchetto
Il volume nasce per presentare e condividere l’esperienza di Area Onlus, che da più di quarant’anni opera principalmente a Torino.
La disabilità è chiaramente al centro delle attività di Area, quindi non stupisce che il termine compaia fin dal titolo del volume, ma l’accostamento alla narrazione potrebbe sorprendere qualche potenziale lettore.
Di narrazioni si parla spesso, è una parola tornata di moda negli ultimi anni, per indicare le descrizioni che dei fatti e degli avvenimenti si veicolano sui social network e, in generale, attraverso i media. Queste narrazioni sono però distanti dal fenomeno che raccontano, in alcuni casi perché distorcono volutamente la realtà per fare leva sull’odio o sulla paura, in altri, pur con le migliori intenzioni, perché il desiderio di mettere in luce la bontà di un’esperienza induce chi la descrive a produrre una narrazione patinata, più simile ad una pubblicità che ad un racconto.
Disabilità e narrazioni sfugge a questi rischi e utilizza il termine in senso “clinico” riconoscendogli un valore trasformativo; alterna con grazia incursioni nella mitologia sumerica e descrizioni di casi clinici reali e complessi, non facendo mai mancare intuizioni che di volta in volta illuminano un aspetto concreto di quel tema vastissimo e multiforme che è la clinica della disabilità.
Il volume si apre con un dialogo immaginario tra colleghi psicoterapeuti al termine di una lunga giornata di lavoro. La discussione verte sulla disabilità e sulla difficoltà ad accettarla che tutte le persone coinvolte – i pazienti, ma soprattutto i familiari e gli stessi terapeuti – continuamente incontrano; la condizione di disabilità è percepita innanzitutto come una tragedia, come una condanna senza crimine e senza fine, uno scherzo di cattivo gusto fatto agli uni e non agli altri, che separa nettamente e lascia senza parole.
Il punto di vista completamente altro – che persino gli psicoterapeuti in riunione faticano a trovare – è offerto dal mito di Gilgamesh, semidio che costruisce le straordinarie mura della città di Uruk, di cui è re, ma non soddisfatto del proprio successo, si imbarca in un’avventura alla ricerca dell’immortalità. Il viaggio non avrà la conclusione sperata, ma Gilgamesh, maturato e temprato, tornerà ad Uruk per accorgersi della meraviglia delle mura in precedenza costruite.
Quello che appare come un ripiegamento su di sé, rappresenta anche l’occasione di considerare diversamente ciò che già si era e si faceva, attribuendo nuovi significati alle esperienze precedentemente considerate irrilevanti o addirittura negative.
Raccontando e raccontandosi con l’aiuto dei terapeuti, i pazienti e le famiglie metabolizzano il trauma causato dalla disabilità, ne parlano in un altro modo, quasi in un’altra lingua.
Questa è la suggestione a partire dalla quale si sviluppa il contributo di Simone Korff-Sausse, che nel volume segue l’introduzione “mitologica” incentrata sul racconto di Gilgamesh. Lo psicoanalista deve essere un poliglotta, capace di parlare anche la lingua di chi, data la propria disabilità, non può più farlo o non ne è mai stato capace. Alcuni casi clinici sono dunque intraducibili, l’analista può comprenderli considerando empaticamente i contenuti psichici che pazienti con gravi disabilità esprimono verbalmente o con movimenti, espressioni e comportamenti che la maggior parte delle persone considererebbe patologici, ma per il terapeuta sono piuttosto altri modi di comunicare che hanno dignità e bellezza proprie e attendono di essere scoperti.
L’autrice presenta, tra gli altri, il caso estremo di Elodie, giovane donna che vede, sente e parla con grande fatica, tanto da essere affiancata dalla madre durante tutte le sedute. La madre parla per Elodie, la traduce e la corregge, sminuendo le affermazioni della ragazza a proposito della propria nascita sofferta o della morte di alcuni membri della famiglia. La figlia afferma ciò che la madre si sforza di negare, e per farlo utilizza anche oggetti, come le centocinquanta bambole che possiede, ciascuna caratterizzata da un nome e da una storia. La paziente oppone resistenza al tentativo della famiglia di rimuovere esperienze dolorose cancellandole e crea identità per le bambole, le quali ricordano e simboleggiano quelle persone che riempiono i vuoti e i silenzi della madre di Elodie.
Ciò che a prima vista sembrava irrazionale ed insensato, un mondo di bambole e peluche che circondano e isolano una donna gravemente disabile, appare quindi a Korff-Sausse come un potente strumento per dire ciò che gli altri tacciono.
L’autrice si rende presto conto che la paziente, ipovedente, ipoacusica, e incline a comunicare facendo smorfie e digrignando i denti, mostra invece di esprimersi in maniera molto chiara se non sovrastata dalla madre, la quale è insieme traduttrice e traditrice.
Il saggio di Korff-Sausse contenuto nel volume mostra efficacemente tutte le oscillazioni che un approccio terapeutico di natura narrativa comporta: molte sono le disabilità, e molti di più sono i modi per raccontarle. Lo psicoanalista dev’essere poliglotta e parlare anche quelle lingue che paradossalmente non sono fatte di parole, perché questo è l’unico modo di accogliere qualunque paziente con disabilità (e non solo) e facilitare l’espressione completa e libera anche dei vissuti più dolorosi, degni di essere esplorati e utili alla comprensione di sé.
Ai molti modi per dire la disabilità è dedicato anche il contributo di Régine Scelles. Quello che a prima vista potrebbe sembrare un elenco di interpretazioni che i siblings – ossia i fratelli e le sorelle di persone con disabilità – danno delle esperienze legate alla diversità vissuta in famiglia, è in effetti una riflessione stimolante sulla legittimità di ogni racconto. Le prime descrizioni della nascita di sorelline e fratellini con disabilità sono proprio quelle che sarebbe più facile aspettarsi, piene di preoccupazione e mistero, con al centro genitori restii a fornire spiegazioni e travolti dagli eventi. La scarsa comunicazione crea nei fratelli non disabili la percezione di una tragedia sempre in atto; anche i fatti più banali sono sopravvalutati, nel continuo tentativo di comprendere, di non preoccupare i genitori o al contrario di attirarne l’attenzione, distraendoli per un momento dalla cura del figlio disabile.
Uno degli esempi illustrati da Régine Scelles pone al centro un diario, scritto da una ragazza durante il lungo periodo di coma e riabilitazione della sorella, divenuta temporaneamente e inaspettatamente disabile. Il diario è pensato per conservare una traccia degli eventi accaduti durante il coma e mantenere un contatto malgrado l’assenza di comunicazione, ma da serbatoio del passato si trasforma in segno del futuro: la sorella ormai guarita continuerà a scrivere. Il passaggio dello strumento narrativo testimonia così la volontà di non sostituirsi al membro disabile della famiglia, riconoscendo appieno la sua individualità.
In un altro caso è l’umorismo la chiave di lettura della diversità, talmente accettata all’interno del contesto familiare da consentire a tutti, anche allo stesso ragazzino con disabilità, di riderne con il fratello.
La possibilità di una trasformazione è data dal delicato equilibrio tra il dire ciò che la disabilità è effettivamente e il far sì che la persona disabile e la sua famiglia siano più della disabilità stessa, evitando che quest’ultima appiattisca la vita su un eterno presente fatto soltanto di preoccupazione e fatica.
In questo spazio intermedio si collocano alcune interviste realizzate dagli operatori di Area per comprendere meglio la quotidianità di genitori di bambine e bambini con disabilità.
Emerge innanzitutto una cesura tra il passato della coppia e il presente del bambino disabile, che sembra fagocitare i genitori in una routine serrata, all’interno della quale nessun bisogno di uno o di entrambi trova spazio. Se per un verso questo risulta essere il destino di tutte le coppie alla nascita di un figlio, per un altro l’irruzione della disabilità separa queste famiglie dalle altre e distrugge le loro aspettative tipicamente legate alla crescita del bambino; il futuro sembra scomparire o riempirsi della ricerca di trattamenti utili a restituire una normalità che in quasi tutti i casi non è mai esistita.
Alla crescita del figlio, a cui abitualmente contribuiscono con facilità anche le generazioni precedenti, si sostituisce in tutto o in parte lo sforzo di ripristinare la salute del bambino e l’equilibrio di un nucleo familiare che si fa progressivamente più ristretto. Più che di crescita e sviluppo si potrebbe pensare ad una sorta di manutenzione del figlio e dell’ambiente familiare, che finisce per sembrare però abitato da automi impegnati ad eseguire compiti privi di un vero scopo.
Abituati a queste operazioni di manutenzione straordinaria, rese però necessarie dalla disabilità, i genitori perdono prima o poi il contatto con le altre famiglie, la cui vita non appare soltanto più semplice, come indubbiamente è, ma radicalmente diversa, tanto da provocare un senso di profonda incomunicabilità che ha come esito l’effettivo isolamento. Non molte famiglie sono inserite in una rete di supporto e di relazioni, e le difficoltà che molti genitori incontrano rispetto alla comunicazione dei propri vissuti in relazione alla disabilità incide ancora più del carico di cura aggiuntivo nel separarle dalle altre.
Ecco allora l’utilità molto concreta di queste interviste, nel corso delle quali il genitore può esprimere stanchezza, frustrazione e rabbia senza temere di essere giudicato, riuscendo poi ad essere libero di dare voce anche ai propri bisogni e desideri, così da riacquistare uno spazio per sé al di là del ruolo genitoriale. Diventa possibile spostare per un momento l’attenzione dalle legittime e spesso gravose esigenze del figlio alle proprie ed esplorandole, percepirsi nuovamente come persone, come individui molto simili agli altri, con bisogni propri e piccoli sogni, come quello di andare di nuovo al cinema.
Malgrado l’idea opprimente che la vita delle persone con disabilità sia chiusa in un eterno presente, lo sviluppo del bambino si verifica, e poco importa che sia tipico o atipico.
Se quasi sempre sono stati completamente impreparati alla nascita di figli disabili, i padri e le madri non sembrano molto più preparati alla loro crescita.
L’inadeguatezza e la diversità, la propria e quella dei figli, tornano a preoccupare i genitori in un momento in cui la necessità di accudimento dovrebbe venire gradualmente meno, poiché in presenza di una disabilità ciò non è sempre possibile.
La narrazione cinematografica fornisce strumenti utili a mettere in scena i timori dei genitori e ad introdurre un minimo di distanza tra loro e questi figli dai quali è particolarmente difficile separarsi, anche nei momenti di passaggio quando sarebbe più importante farlo.
“Turning Points”, punti di svolta, è appunto il nome del progetto laboratoriale creato da Area per genitori di giovani con disabilità intellettive alle prese con i cambiamenti dell’adolescenza.
La sceneggiatura che il genitore è chiamato ad elaborare ha già un inizio immodificabile, ovvero la presenza di tre personaggi collocati in una casa battuta dalla pioggia. Uno dei personaggi è già destinato a trasformarsi in un cartoncino, una condizione poco favorevole all’uscita da casa, considerata la pioggia. Che si tratti di un modo per indicare la fragilità connessa alla disabilità è volutamente palese, infatti, il laboratorio si sviluppa tra due poli, la realtà dell’autobiografia e la finzione narrativa e cinematografica. La concretezza opprimente del limite è opposta a qualcosa che in prima battuta concreto non è, poiché nella migliore delle ipotesi sembra trattarsi di un diversivo, di un modo per trascorrere qualche ora fantasticando. La costruzione di una sceneggiatura, invece, pur carica di tutte le incertezze del genitore di fronte a questo figlio di cartone, troppo debole per sostenere anche il poco peso di un ombrello, permette di escogitare soluzioni alternative per avventurarsi fuori casa riparandosi dalle intemperie che inevitabilmente colpiscono la vita adulta.
Per una madre, ad esempio, è con la collaborazione di tutti i personaggi che risulta possibile costruire una protezione efficace per l’intero gruppo, finalmente libero di partire per un luogo magico dove dimorano, ben integrati, molti altri cartoncini, fragili ma profumati come la carta stampata. L’isola dei cartoncini è lo specchio dell’esperienza nell’associazione, tramite la quale è stato possibile trovare un gruppo di pari, nella cornice di questo e altri laboratori con al centro il racconto e la scrittura.
La consapevolezza acquisita tramite il confronto e la partecipazione ai laboratori ha anche ricadute sul mondo esterno: la madre del giovane che nella finzione della sceneggiatura ha il profumo della carta stampata esprime, ad esempio, l’intenzione di raccogliere in un libro le esperienze di altri genitori di persone con disabilità. Si può dunque pensare che anche questa mamma abbia trovato un modo di uscire di casa nonostante la pioggia, ancora una volta con la collaborazione di un gruppo.
Le persone con disabilità, e spesso i loro genitori, sembrano quindi nascere due volte, come il padre e il figlio protagonisti del noto romanzo di Pontiggia. La prima è una nascita che ha molto a che fare con la morte, con la perdita di sogni e speranze. La seconda è invece una sorta di morte che apre alla vita, seppure al prezzo di una piena accettazione dei limiti tracciati dalla disabilità e del lutto per la perdita irrecuperabile delle esperienze che si collocano al di là di quei limiti.
Accettando di stare al mondo a modo proprio, disabili e famiglie accettano in ultima analisi di starci effettivamente.
Ciò ovviamente non significa che la rinascita metta al riparo da cadute e ricadute, anzi. Nel libro La caduta di Diogo Mainardi, il parto difficile del piccolo Tito comporta una paralisi cerebrale e quindi una disabilità permanente, ma i primi segni della diversità del bambino sono descritti con umorismo dal padre, il quale per prima cosa nota che la creaturina è verde ed è contrassegnata da un cognome sbagliato, storpiato per errore dall’ospedale, responsabile anche dei ben più gravi errori che sono alla base del buffo colore verde e della grave disabilità non ancora visibile.
L’umorismo è certamente un’arma di difesa utilizzata contro il dolore, ma ne La caduta è anche un mezzo per integrare la disabilità nella quotidianità, normalizzando così l’una e l’altra.
Il piccolo Tito, che alla nascita ha visto i propri battiti cardiaci precipitare causando la mancanza di ossigeno e la lesione cerebrale, una volta cresciuto continua a cadere per via della propria andatura barcollante. Come lui cadono anche sua madre e suo padre: «Ciò che ci unisce – che ci unirà sempre – è la caduta» scrive Mainardi. Siamo nati come esseri in bilico, ognuno instabile a modo suo. Di queste cadute ride tutta la famiglia, per la quale la disabilità sembra essere non solo tragica, ma anche comica.
Un simile approccio può sembrare inopportuno, se non addirittura scandaloso, ma il capovolgimento e la trasformazione sono il fine della terapia che nella narrazione trova uno strumento potente: ciò che è vero resta tale, ma diventa meno opprimente quando finalmente può essere espresso. Ciò che invece vero non è, diventa almeno possibile, e pertanto sprona e dà speranza.
La lettura di questo volume è consigliata a psicoterapeuti impegnati nel trattamento di bambini, giovani e adulti con disabilità e a insegnanti e operatori sociosanitari che nello svolgimento quotidiano del proprio lavoro si trovano a interagire con persone in situazione di disabilità.
La lettura di Disabilità e narrazioni è inoltre consigliata alle persone con disabilità e alle loro famiglie che, come è accaduto a chi scrive, si riconosceranno in molti dei racconti, ma allo stesso tempo ne saranno sorprese.
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